La Puglia futura nel rispetto dell'ambiente

La Puglia futura nel rispetto dell'ambiente
di Paola ANCORA
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Giovedì 26 Marzo 2020, 15:23 - Ultimo aggiornamento: 16:31
E se la più grande delle innovazioni green si rivelasse quella di togliere il piede dall'acceleratore dello sviluppo? Questa domanda, quasi un tabù per il mondo globalizzato e industrializzato, è tornata oggi di prepotente attualità. La pandemia da coronavirus ha svuotato i cieli, il mare e le strade, ha costretto a chiudere le fabbriche, a «ridurre al minimo il motore» dell'Italia per dirla con le parole del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. La crisi economica è acclarata e, con ogni probabilità, sarà più grave di quella che, nel 2008, fece impennare i livelli della disoccupazione, mandando sul lastrico aziende e lavoratori. La preoccupazione della politica, dei governanti nazionali e locali è palpabile, concreta. E allo sforzo di contenere la pandemia e proteggere la vita delle persone si sostituirà, domani, quello di riavviare il motore, rilanciare l'economia, risollevarsi dopo un tonfo la cui eco supererà il campo gravitazionale terrestre. Come?
Un contributo per rispondere a questa domanda viene dall'osservazione di uno degli effetti collaterali della pandemia da Covid-19: la rinascita della Natura. Evidente non solo dentro le oasi - si pensi a Torre Guaceto nel Brindisino, alle Cesine lungo la costa salentina - ma anche fuori di esse: nei boschi, nelle pinete, nei laghi, nel mare, ovunque all'uomo, oggi, sia proibito andare.
Una prova semmai ne avessimo bisogno di quanto incisiva e prepotente sia stata la presenza umana negli ecosistemi e di quanto necessaria sia la svolta annunciata dall'Unione europea (e accolta dal Governo italiano) di un Green New Deal, svolta arrivata sull'onda della protesta che ha camminato sulle gambe dei sedicenni come la svedese Greta Thunberg ed ha raggiunto e coinvolto ogni angolo del mondo. Puglia compresa.
La nostra regione dovrà misurarsi, domani, con un ventaglio di sfide non facili. Ma potrà contare su un vantaggio: un crescente sentiment ambientalista e innovativo, laddove i due aggettivi non sono più in antitesi, opposti, ma si sposano per saldare i binari di uno sviluppo economico nuovo, comunque redditizio, certamente rispettoso della natura e più efficiente, in termini di produzione di posti di lavoro duraturi. Basti pensare che, se riuscissimo a raggiungere entro il 2030 gli obiettivi fissati con l'Accordo di Parigi sul Clima - -55% di emissioni verrebbero creati solo in Italia 2,7 milioni di posti di lavoro (dati Legambiente) per benefici complessivi pari a 5,5 miliardi di euro.
A dimostrazione di un cambio diffuso di visione e mentalità, ci sono i numeri, quelli che fotografano il panorama pugliese delle nuove imprese. E che ci dicono come le start up green, in alcune province pugliesi più di altre (nel Salento sono mediamente 24 su 108 nate in un anno, cioè il 22,2%), costituiscano una opportunità concreta per molti, soprattutto per le donne e i laureati, cioè due delle categorie da anni in fondo alle classifiche dell'occupazione: aprire loro la porta del mondo del lavoro green e innovativo significa mettere nuovo carburante nel motore della crescita. E questo la Puglia lo sa: resta una delle regioni con il più elevato indice di start up innovative e a tema ambientale, dedicate in modo specifico alla ricerca. Ed è anche la prima per numero di installazioni di nuove rinnovabili, ossia solare ed eolico (5.213 MW su 5.532 MW totali del Paese, dati Legambiente, ndr).
Su questo fronte, però, esiste il problema (finito anche all'attenzione delle Procure) di integrare gli impianti nel paesaggio pugliese, indirizzandone la creazione nelle zone industriali, sui tetti degli edifici dunque in contesti già urbanizzati e cementificati salvando campagne, aree verdi e di pregio alle quali, fino a oggi, non è stata prestata la giusta attenzione da parte di chi ha avuto il compito di autorizzare e pianificare lo sviluppo delle rinnovabili. Si pensi alle distese di fotovoltaico che hanno mangiato ettari ed ettari di campagna e che, complice anche la devastazione della xylella, hanno stravolto il paesaggio.
Un bene, il paesaggio, che la Puglia per prima ha inteso preservare e porre al centro della visione di futuro: il Piano paesaggistico territoriale tematico pugliese è stato annoverato, al momento del varo, fra gli strumenti urbanistici più innovativi del Paese. Certo, tutelare il paesaggio, scommettere sul turismo e investire nel green sono obiettivi che dovranno essere accompagnati da una ancora più capillare campagna civica di sensibilizzazione, quanto meno per porre fine alla devastante abitudine di disfarsi dei rifiuti gettandoli in campagna. Oggi i Comuni hanno potenziato molto i controlli per stanare gli sporcaccioni e gli evasori fiscali, ripulendo i territori di loro competenza a suon di fototrappole e multe salatissime. Ma la Puglia paga un prezzo altissimo, ancora oggi, alla mancata chiusura del ciclo dei rifiuti. Tre governatori diversi si sono succeduti senza che questo venisse concluso. E così i viaggi dell'immondizia per smaltire fuori l'organico prodotto dai pugliesi proseguono senza sosta, con grande dispendio di risorse e denari.
Ridurre, riutilizzare, riciclare le 3R del futuro sono i punti cardinali per individuare la direzione da seguire: la differenziata pugliese ha raggiunto il 62,2% su scala regionale, con grandi differenze fra Comune e Comune, ma la svolta è ancora di là da venire. E l'innovazione più grande, qui, sarebbe ottenere impianti pubblici di smaltimento dell'organico per centrare davvero l'obiettivo di una economia circolare a rifiuti zero, nella quale si minimizzi la quantità di rifiuti prodotti, se ne migliori la qualità perché dai rifiuti si può, e si dovrebbe, guadagnare profitto e si aumenti la differenziata, a beneficio dell'ambiente e delle tasche dei cittadini. Al momento, tutto questo è nel Piano dei rifiuti, sulla carta, con i siti prescelti per gli impianti e le risorse europee da stanziare. Ma la strada sarà ancora lunga e, fino a ora, vent'anni non sono stati sufficienti a trasferire nella realtà l'idea che il rifiuto è una risorsa, non uno scarto.
All'orizzonte della Puglia si stagliano poi Le Sfide, le più grandi e significative dal punto di vista ambientale e dell'innovazione: decarbonizzare Cerano e riqualificare l'ex Ilva.
La premessa muove, inevitabilmente, dal contesto nazionale. Se l'Italia vuole fare la sua parte per mantenere l'aumento medio della temperatura globale sotto 1.5°C, potrà emettere ancora 3,8 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. Un simile carbon budget, con i consumi e le produzioni attuali, sarà esaurito in dieci anni appena. Lo conferma un interessante studio del centro di ricerca Eurac Research, con sede in Alto Adige. Decarbonizzare permetterebbe di risparmiare diversi miliardi di euro all'anno (circa 7,3) sull'acquisto di combustibili fossili, liberando risorse da investire sul territorio per produrre energie rinnovabili in loco, realizzare interventi di efficientamento energetico, sostenere la mobilità elettrica, che dovrebbe riuscire a raggiungere il 20% del totale per rivelare i suoi benefici.
Decarbonizzare la centrale Enel Federico II a Cerano, in provincia di Brindisi, significherebbe compiere un passo da giganti in questa direzione. Ma benché si tratti della più grande delle quattro centrali italiane Enel, con 2640 MW installati, un errore nella presentazione all'Europa del Piano per il Green New Deal rischia ancora oggi di mettere a rischio le somme necessarie a una simile riconversione. Riconversione che Enel, per il momento, immagina rivolta prevalentemente al gas naturale e, in seconda battuta, anche all'eolico e al fotovoltaico, così da mettersi alle spalle decenni di carbone. L'obiettivo è completare il passaggio entro il 2025, ormai dietro l'angolo, con una riduzione della capacità di produzione da fonti fossili di 8 GW e, gradualmente, una riduzione proporzionale delle emissioni. Conciliare sostenibilità e sviluppo economico non è più un'opzione, ma un imperativo, e non solo per la Puglia.
Infine c'è l'ex Ilva. Con i suoi problemi, attuali e atavici. E con la necessità di inserire, all'orizzonte, la parola riqualificazione. Non solo perché il mercato dell'acciaio ha conosciuto una profonda evoluzione nel mondo e l'asset di Arcelor Mittal, che ha oggi in concessione il siderurgico tarantino, lo dimostra ma anche perché Taranto e la Puglia vogliono voltare pagina. E vogliono poter tenere insieme lavoro e salute, come rivela il dibattito mai spento nella politica e nelle istituzioni.
Così, per riqualificare l'ex Ilva fra gli impianti più inquinanti del Vecchio Continente -, servirebbero 1,6 miliardi di euro: poco meno di 2 centesimi dei 100 miliardi totali che la Commissione europea, con il programma Horizon Europe da approvare entro la fine del 2020, ha voluto destinare a «sfide globali e competitività industriale europea» . Mai come adesso l'obiettivo è raggiungibile, vicino. Il programma Horizon permetterà di parteciperà a bandi di ricerca sull'innovazione tecnologica, mentre il Pilastro 2 dello stesso piano sarà dedicato all'obiettivo di un'industria più competitiva. Si parla di industrie altamente energivore da trasformare in industrie pulite e a bassa emissione, facendo specifico riferimento proprio all'acciaio, dunque all'ex Ilva. Servirà dire le parole giuste e azionare le leve della diplomazia e della politica. Poi, si potranno muovere i primi passi verso un futuro green, tutto nuovo, tutto da costruire.
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