A tavola l’incrocio tra civiltà

A tavola l’incrocio tra civiltà
di Leda CESARI
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Giovedì 19 Marzo 2020, 09:20 - Ultimo aggiornamento: 14:19
Nel gusto, saperi e fantasia


Dopo anni di oblio, noi italiani ci siamo riappropriati di un concetto: il termine “cultura” non può essere riservato solo alle attività artistiche per antonomasia – pittura, musica, scrittura, and so on -ma deve necessariamente ricomprendere tra i suoi asset strategici anche l’enogastronomia. Parallelamente, rimuovendo decenni di colpevole corsa al cibo industriale, morto, siamo tornati (anzi, stiamo cercando di tornare) alla bellezza del cibo vivo, naturale, di prossimità. E ai concetti di biologico, chilometro zero, ecologia: una guerra culturale che, a dire il vero, non è ancora finita. Ma che registra importanti successi. E uno di questi, di certo tra i più eclatanti, è il caso Puglia: terra dove parole come biodiversità, sostenibilità, contaminazione sono parole declinate da millenni, pratiche rimaste sostanzialmente immutate anche quando il problema di ciò che finiva nei nostri piatti, dagli anni del boom economico e fino agli Ottanta inoltrati, era massimamente delegato all’asetticità degli stabilimenti industriali e degli allevamenti intensivi (che purtroppo esistono ancora) più che aimillenari rituali degli orti e dei pascoli. Nelle nostre case, grazie a Dio, pasta fatta in casa, verdure locali, vino e l’olio della vigna accanto, frutti delle nostre campagne non sonomai mancati, neanche quando il tortellino industriale e la carne in scatola si imponevano sulle tavole italiane come simboli necessari di una modernità non più a lungo rinviabile. Il risultato? La salvaguardia, almeno parziale, di una ricchezza enogastronomica che ha pochi eguali al mondo. E che ilmondo tutto, oggi, ci invidia.

Una ricchezza paradossalmente nata in una situazione di estrema povertà: la maggior parte dei nostri piatti, così universalmente apprezzati, rientra a pieno titolo tra i capisaldi della cosiddetta “cucina povera”. Ottenuta cioè in condizioni climatiche difficili - già Orazio descriveva la Puglia come “terra sitibonda”, dove l’afa asciuga anche la poca acqua disponibile - con ingredienti semplici, quasi primordiali. Una cucina priva di grandi fronzoli, ma di grande contaminazione geografica, a volte etnica: in Puglia, fin dalla preistoria, sono approdati tutti, daiMessapi ai Borboni, passando per i Greci e per i Romani. Ognuno ha lasciato le sue tracce, non solo artistiche o architettoniche: se “ciceri e tria”, specialità tutta salentina, pare debba parte del suo nome (e della sua sostanza) alla tria, pasta secca di origine araba (per questo diffusa anche in Sicilia), orecchiette e “tiedd” (timballo di patate, riso e cozze) avrebbero origini rispettivamente francese e spagnola. Ed anche due altri presidi incontrastati della cucina regionale - fave e cicorie e parmigiane - proverrebbero da latitudini greche ed arabe. Un’abbondanza che viene da lontano, quindi. La Puglia, piattaforma naturale protesa tra due mari, ha sempre dialogato, fin dagli albori della civiltà, con l’Oriente. E all’Oriente dobbiamo tanto l’ulivo quanto la vite, oggi baluardi insostituibili della nostra cultura, non solo enogastronomica, e dell’economia regionale. Ciò a dispetto dell’ultimo rapporto Ismea-Qualivita sulla DopEconomy, che racconta le meraviglie (e il peso economico) della produzione certificata DOP e IGP nel settore agroalimentare italiano. E che cita la Puglia solo quando si parla di vino: nona tra le prime dieci regioni d’Italia per impatto economico IGWine, con un bel più 62 per cento di incremento tra 2017 e 2018, percentuale più alta sul suolo nazionale. E poi l’olio: nel 2019 l’Italia ha raggiunto la soglia dei 300 prodotti Food DOP, IGP, STG, aggiungendo all’elenco ufficiale dei suoi gioielli anche la nuovissima Olio di Puglia IGP. Visto che la stella è il vino, cominciamo proprio da questo. Secondo Coldiretti Puglia, l’export dei nostri prodotti è infatti aumentato rispetto al 2018 del 6,7 per cento, con un aumento del 5 per cento per i vini Doc, del 4 per cento per le IGP, del 6 per cento per gli spumanti (novità con cui molti produttori salentini si stanno ormai cimentando). Un bel balzo del 17 per cento in avanti lo fanno anche i rosati, tra i più venduti (soprattutto in Cina), secondi in gradimento internazionale solo ai mitologici rosé della Provenza e costituenti il 40 per cento della produzione nazionale con oltre un milione di bottiglie l’anno. Vini rossi, rosati e spumanti hanno ottenuto incrementi, negli ultimi tre anni, del 122 per cento. Un successone, insomma, quello delle etichette pugliesi, cui hanno dato e continuano a dare un contributo decisivo, in termini nazionali, i due vini di Puglia per antonomasia: il Negroamaro (in crescita del 15 per cento), ma soprattutto il Primitivo (più 21 per cento), che ormai spopola sui mercati planetari e si attesta al secondo posto della classifica tricolore: 140 milioni di euro il giro d’affari del Primitivo di Manduria, del quale sono stati imbottigliati nel 2019 quasi 17 milioni di litri, per circa 23 milioni di bottiglie di vino (circa il 12 per cento in più del 2018), il 70 per cento delle quali destinate all’estero. E questo nonostante i cali produttivi degli ultimi anni, dovuti certamente al desiderio dei viticoltori di puntare sulla qualità, non più sulla quantità (perché l’enologia pugliese è sempre più concentrata sulla necessità di produrre vino da imbottigliamento, cioè non sfuso), ma anche e soprattutto ai cambiamenti climatici in corso, che rendono quanto mai imprevedibile, ogni anno, gli esiti della produzione e della vendemmia: meno 15 per cento, quest’anno, per la Puglia. Capricci del meteo a parte, il vino pugliese piace. E non è un favore riservato soltanto ai due grandi protagonisti dell’enologia regionale, ma anche ai vitigni autoctoni cosiddetti minori, quelli che i produttori pugliesi stanno lavorando per recuperare da un po’ di anni a questa parte - è il caso questo del Susumaniello – o comunque della varietà strettamente connesse a zone produttive abbastanza ristrette, come ad esempio il Nero di Troia, che dà il suo apporto a una Doc famosa: la “Castel delMonte”.

Passiamo all’olio. Collina di Brindisi, Dauno, Terra di Bari, Terre Tarentina, Terra d’Otranto: le Dop non mancano, l’eccellenza neppure. E nonostante gli sfracelli della Xylella l’olio di Puglia continua a tirare: la campagna in corso sarà quella del riscatto dopo la peggiore stagione di sempre, pronosticano gli osservatori di mercato di Cia-Agricoltori italiani, Italia olivicola e Aifo, perché quella in corso sarà un’ottima annata in cui la Puglia, con un fantasmagorico 175 per cento di incremento, produrrà da sola quasi il 60 per cento dell’olio extravergine d’oliva nazionale.

Ma non di solo vino e solo olio vive l’uomo (gourmet) di Puglia: le produzioni agricole regionali, si sa, non sono seconde a nessuno. Nel 2019 il loro valore è tornato a crescere, attestandosi su 3,6 miliardi di euro, in parte grazie al recupero della filiera olivicolo-olearia, che dopo il crack del 2018 per le gelate ha segnato un aumento del 128 per cento rispetto all’anno precedente. Carciofi brindisini, arance del Gargano, lenticchia di Altamura, magari da accompagnare con lo stesso pane di Altumura (altro prodotto Dop), e magari da un bel pezzo di canestrato pugliese o caciocavallo silano (che sì, si fa anche in Puglia, come la mozzarella e la ricotta di bufala campana), o qualche fetta dei salumi che alcune aziende preparano così bene (soprattutto nel Leccese, nel Brindisino e anche nel Tarantino): e la bontà di Puglia è servita.
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