Il Premio Nobel per la Medicina David Julius: «Il dolore non ha più segreti. E' una malattia e si cura»

David Julius, Premio Nobel per la Salute 2021
David Julius, Premio Nobel per la Salute 2021
di Carla Massi
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Giovedì 11 Novembre 2021, 06:00 - Ultimo aggiornamento: 21 Febbraio, 04:55

Tutto è iniziato in un supermercato. Davanti allo scaffale delle spezie dove, tra tutte, primeggiava il peperoncino. Lì, mentre la moglie continuava a fare la spesa con il carrello, ha avuto l’intuizione per la ricerca.

Una ricerca che, anni e anni dopo, ha fatto arrivare il premio Nobel per la Medicina 2021 nelle mani del fisiologo David Julius, 66 anni di New York. Docente all’Università della California a San Francisco divide il riconoscimento con Ardem Patapoutian, 54 anni, biologo molecolare e neuroscienziato statunitense di origini armeno-libanesi allo Scripps Research di La Jolla  in California. L’Accademia svedese delle Scienze di Stoccolma, che anche quest’anno non consegnerà i Nobel in presenza causa pandemia, ha individuato nei due scienziati coloro che rivoluzioneranno la vita di un miliardo e mezzo di persone nel mondo. Quelli che soffrono di dolore cronico. Solo in Italia sono 16 milioni. Parliamo di emicrania, artrite reumatoide, mal di schiena, artrosi, nevralgie del trigemino, condizioni post trauma. Parliamo di una condizione generale di sofferenza che non molla mai, che accompagna le giornate. La vita.

Julius e Patapoutian, partiti dalla percezione di caldo e freddo, hanno svelato i segreti del dolore. Individuando i recettori coinvolti nella sensazione della temperatura e del tatto hanno aperto una strada, fino ad oggi sconosciuta, per sviluppare nuove cure contro il dolore. Ricerche apripista, iniziate negli anni Novanta, che oggi diventano una nuova alba terapeutica. Capace di rivoluzionare la vita dei pazienti nel fisico e nella psiche. Pazienti che, oggi, nella maggior parte dei casi riescono a star bene solo con alte dosi di farmaci. E non sempre. Tutto, appunto, è iniziato in un supermercato dove il peperoncino è diventato protagonista dei lavori di David Julius. «La ricerca - spiega - deve nascere dall’osservazione del quotidiano. Dall’analisi del rapporto tra le persone e l’ambiente. Ho scelto le neuroscienze proprio per lavorare su questo». Gli studi sono stati condotti su cellule in coltura stimolate con la capsaicina, la molecola presente nel peperoncino che “infiamma” la bocca.

Cominciamo con il peperoncino che ha ispirato la ricerca da Nobel.

«Volevo capire perché certe piante venivano, in antichità, utilizzate per la produzione di medicinali e rituali. E così sono arrivato a quella pianta. Per capire come i segnali responsabili della temperatura e della sensazione di dolore vengono trasmessi dai circuiti neurali del cervello abbiamo sfruttato una varietà di sostanze nocive prodotte da animali e piante. Comprese le tossine delle tarantole e dei serpenti corallo, fino alla capsaicina che produce il calore nei peperoncini».

Quindi per voi fare centro significava identificare come questi prodotti naturali e altri composti innescano caldo, freddo e dolore?

«Ho iniziato ad interessarmi ai meccanismi del dolore, ai principi attivi delle piante che attivano proprio questi meccanismi.

Quando studi i sistemi sensoriali la Natura ti fa da maestra. La si deve guardare per studiare, le domande sorgono guardando intorno a noi».

Ha iniziato pensando di arrivare a nuovi strumenti per controllare il dolore?

«Abbiamo iniziato per capire alcuni meccanismi nel nostro cervello. In questo caso, l’attivazione della capsaicina il principio attivo del peperoncino. A dire la verità non pensavo dove mi avrebbe portato quel lavoro. Era pura ricerca di base. Quella che, speriamo, si continui a fare nei laboratori di tutto il mondo».

Teme venga fermata?

«La maggior parte dei risultati della ricerca biomedica vengono dalla curiosità umana. I nostri lavori creano la piattaforma per poi arrivare alla nascita di nuove terapie».

E lei è curioso, dunque?

«Alla scienza si deve dedicare la vita. Si deve avere pazienza, tanta. Dei momenti ti sembra di essere arrivato sul picco più alto di una montagna e in altri attraversi sterminate valli noiose in cui ti domandi dove stai andando. Ci vuole determinazione, persistenza e essere consci che se continui a lavorare prima o poi trovi».

Avete cercato, nella miriade di geni della cellula, quelli responsabili della produzione di una proteina in grado di fungere da recettore per la capsaicina, vero?

«Abbiamo lavorato su cellule che sono in tutto il corpo, che danno sensazioni diffuse. Questa ricerca è stata difficile da avvicinare».

E siete arrivati a traguardi che oggi permettono di ipotizzare farmaci contro il dolore cronico anche se, forse, non l’avevate ipotizzato da subito...

«Oggi si pensa a “costruire” terapie con un limitato numero di effetti collaterali e senza il potenziale da dipendenza da oppioidi. L’obiettivo è quello di eliminare il dolore che ormai viene considerato di per sé una malattia. Indipendentemente dalla patologia che lo genera o dal trauma. Deve essere affrontato con questa ottica e solo così sarà possibile inibirlo».

Siamo sulla buona strada per arrivare a questo risultato?

«Si deve agire farmacologicamente sul dolore ma solo sulla “parte” che crea sofferenza e non su quella che consideriamo protettiva. Il dolore, infatti, è una nostra naturale difesa. Ci fa capire di stare lontano da quello che ci procura il male. Va considerato un allarme nei confronti del rischio. Ecco questo ruolo non può essere intaccato».

Quindi farmaci molto selettivi nell’agire?

«Si sta lavorando su terapie mirate in grado di non toccare il meccanismo di base che regola il dolore. Le ricerche di Patapoutian e quelle del mio gruppo oggi permettono questo».

Il Nobel per la Medicina è sicuramente il più grande traguardo di uno scienziato, lei ha mai pensato che l’Accademia di Stoccolma avrebbe scelto lei e Ardem Patapoutian per il lavoro fatto?

«Se ti dedichi alla ricerca devi riuscire ad essere soddisfatto anche se quell’esperimento a cui hai dedicato tanto tempo non ti ha dato i risultati che attendevi. Il lavoro nei laboratori va considerato come un hobby, deve piacerti. Sempre. Devi essere interessato a quello che fai, a quello che raggiungi con il gruppo. La scoperta regala gioia e eccitazione, certo. In quel momento sai che sei l’unico ad avere la risposta alla domanda iniziale del lavoro. Ma non si può pensare solo a vincere».

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