Il mental coach: «Visual training e una scatola nera dove buttare i cattivi pensieri»

Il mental coach: «Visual training e una scatola nera dove buttare i cattivi pensieri»
di Maria Pirro
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Giovedì 16 Settembre 2021, 06:00 - Ultimo aggiornamento: 11 Novembre, 15:41

Ai Giochi olimpici di Tokyo tre sue atlete hanno conquistato una medaglia. Ma per Luca de Rose, mental coach, i veri campioni sono quelli che hanno sperimentato il fallimento. «La forza più grande è trasformare una bruciante sconfitta in vittoria. Consiste nel saper ricominciare...».

In tanti chiedono aiuto?

«Con la pandemia è aumentato il numero di casi di Sos. Con una differenza rispetto al passato: andare dallo psicologo non è più un tabù. E non è nemmeno un segno di debolezza».

Perché?

«Perché abbiamo tutti bisogno di un sostegno per allenare e tenere in forma il cervello. Marcell Jacobs, oro nei cento metri, ha ringraziato la sua mental coach».

Qual è stata la sfida più dura per gli atleti di Tokyo?

«Reggere un anno in più di preparazione: solo mantenere il proprio peso, come è obbligatorio nel judo o nella boxe, ha significato disciplina ed equilibrio, e tante rinunce».

Il suo ruolo, in questo percorso?

«Ascoltarli, ma non solo. Io utilizzo un metodo pratico, vado in trasferta. Sul campo».

Poi come interviene?

«Con il training autogeno e il visual training che consente di sviluppare i riflessi della vista, usando diverse tabelle per velocizzare i tempi di reazione cognitiva affinché siano rapidi quanto i movimenti».

Un esercizio utile anche nella vita quotidiana?

«Sì, per migliorare le capacità di concentrazione ridotte da pc e smartphone».

Nel suo studio c’è una scatola nera: a che cosa serve?

«Può raccogliere rabbia, tristezza, inquietudini: permette di gestire le emozioni».

In che modo?

«Ai pazienti chiedo di scrivere i cattivi pensieri o disegnarli e mettere il foglio all’interno del contenitore, da distruggere.

Possono ripetere questo gesto liberatorio a casa o sul luogo di lavoro».

E addio al lettino dello “strizzacervelli”.

«Meglio un divanetto ed evitare strumenti che rimandino a una malattia. Dietro la scrivania, un dipinto del mio bisnonno».

L’impressione è che giovani e adulti siano comunque depressi. Adesso più di ieri.

«Vengono da me genitori e figli, persone a disagio in ufficio, coppie in crisi, vittime di violenze familiari».

Cosa suggerisce?

«Esercizi di respirazione in quattro tempi permettono di sentirsi meglio, ridurre ansia e stress, come chiudere gli occhi e immaginare un posto tranquillo, il proprio rifugio lontano dalle preoccupazioni. Un’altra soluzione è scomporre i problemi».

Cioè?

«Se si ha paura dell’altezza, non bisogna guardare la vetta di una montagna, ma concentrarsi sul tragitto. Mettere a fuoco obiettivi raggiungibili».

Graduale è anche la ripresa ai tempi del coronavirus.

«Dobbiamo ripartire per piccoli passi: senza grandi aspettative, riusciamo a ridimensionare anche le nostre paure».

Ma un po’ tutti oggi sono anche più aggressivi.

«Lo sono ancora di più i bambini, in tanti fanno una gran fatica a guardare un compagno negli occhi. Sono portati a nascondersi».

Che fare?

«Bisogna tentare di stabilire un contatto con l’altro ma anche di indicare la giusta distanza da sé, allungando un braccio per proteggere i propri spazi. I limiti ci delineano: rappresentano il confine di chi siamo». 

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