Hiv, svolta nella cura. Lo scrittore Jonathan Bazzi: «Addio pastiglia, la nuova terapia cambia la vita»

Hiv, svolta nella cura. Lo scrittore Jonathan Bazzi: «Addio pastiglia, la nuova terapia cambia la vita»
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Lunedì 21 Novembre 2022, 10:54 - Ultimo aggiornamento: 15:52

«Stamattina ho fatto le prime inoculazioni dei farmaci iniettivi, stasera prenderò per l’ultima volta (spero) la pastiglia rosa pallido che, da sei anni, piega i miei orari e reclama la mia (labile) capacità organizzativa. Cambia tanto ora, nel silenzio dei più, per le persone che convivono col virus dell’HIV, cambia davvero tantissimo, anche se nessuno ne parla». Ora, però, ne parla lui, Jonathan Bazzi, milanese di Rozzano, 37 anni, lo scrittore che in Febbre — finalista allo Strega nel 2020 -  aveva ripercorso la scoperta della propria positività. «Per il momento la durata di questi nuovi farmaci è di due mesi, ma stanno già lavorando a quelli semestrali: a ogni nuova svolta della vicenda medica che a trent’anni mi sono trovato a vivere non posso fare a meno di pensare alla fortuna senza merito di essere sieropositivo nel terzo millennio e non all’inizio della diffusione globale di quest’infezione, quando il parassita invisibile e insieme eclatante che mi porto dentro a quest’ora avrebbe già portato a termine la sua missione. Come ha fatto con migliaia di ragazzi giovani e giovanissimi (non solo, ma loro m’ossessionano), traditi dalle cose più belle».

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La diagnosi


«Quando mi diedero la diagnosi, al medico dissi che non avevo mai avuto a che fare con gli ospedali.

Mai interventi, ricoveri, incidenti, mai nulla di rotto. Mi sa che ora cambierà qualcosa, rispose. E qualcosa è cambiato eccome. Il mio corpo – molto più di quel che dico o racconto – è oggi un campo di azione medica costante. Prelievi, vaccini, pap-test, biopsie, densitometrie, studi nazionali, visite e ancora visite. Per fortuna perlopiù a scopo preventivo o di monitoraggio. Proprio dopo una giornata come quella di oggi – in cui il mio magico infettivologo mi ha accompagnato a distanza in quel che avevo da fare, e in cui ho conosciuto un nuovo, gentilissimo medico all’ambulatorio per il Papilloma e l’infermiera allegra e premurosa dei nuovi farmaci iniettivi – mi rendo conto di quando sia determinante, potente l’interazione personale quando si parla di salute e terapie. Perché basta una frase e la paura può evaporare, una battuta e il corpo scaldarsi, una spiegazione e la scala degli eventi si ridimensiona».

«Non pensavo avrei frequentato così assiduamente gli ospedali nella mia vita, ma la verità è che da subito non è stato un problema, perché avvicinandomi ad essi, inoltrandomici, ho avuto la possibilità di trovarci spesso sponde risolutive ai fantasmi angosciosi che una condizione delicata ti soffia dentro. E queste sponde hanno tutte un nome, un corpo, uno stile specifico e proprio di esserci e prendersi cura. Uno sguardo che non ha affatto solo a che fare con gli occhi. Ricevo cose molto preziose senza dar nulla in cambio, consegnando di qua e di là fluidi e organi da ispezionare, e questo a me certe volte pare proprio una miniatura di quel che può significare il bene su questa terra».

La nuova cura

Al posto della pastiglia quotidiana, dunque, l’iniezione di due antiretrovirali, il cabotegravir (una nuova molecola) e la rilpivirina (utilizzata dal 2013). CaRLA è il nome dato alla terapia, la prima a lunga durata — le iniezioni vanno fatte ogni due mesi — disponibile in Italia dallo scorso luglio. 

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