Anticorpi monoclonali, il mistero della terapia antivirus che nessuno usa

Anticorpi monoclonali, il mistero della terapia antivirus che nessuno usa
Anticorpi monoclonali, il mistero della terapia antivirus che nessuno usa
di Graziella Melina
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Domenica 11 Aprile 2021, 08:15 - Ultimo aggiornamento: 12 Aprile, 09:36

Se per la campagna vaccinale anticovid la strada è ancora tutta in salita, non va affatto meglio per la profilassi con gli anticorpi monoclonali. Dopo l'acquisto di 150mila dosi da destinare ai pazienti più a rischio di ammalarsi in modo grave e quindi di finire in ospedale, i monoclonali finora sembrano quasi snobbati. Eppure le indicazioni dell'Agenzia italiana del farmaco sono chiare: vanno dati solo a determinati soggetti entro pochi giorni dalla diagnosi e i centri abilitati al trattamento indicati sono ben 368. La realtà però come sempre è diversa dalle buone intenzioni: i centri che realmente li somministrano sono poco più di cento, e fino al 31 marzo i pazienti trattati poco più di un migliaio.

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Le Regioni

Tra le regioni più virtuose il Veneto con quasi 300 dosi somministrate, la Toscana e il Lazio intorno a 150 (a Viterbo, per esempio, stanno utilizzando la terapia con successo e contano di arrivare rapidamente a 150 somministrazioni), il Molise invece si ferma a 4. La Calabria recupera nella prima settimana di aprile e arriva ad uno. «Il problema di fondo è che il meccanismo è complicato - spiega Francesco Menichetti, direttore di Malattie infettive dell'azienda ospedaliera Pisana - perché tutto funzioni serve una continuità assistenziale territoriale a regola.

In sostanza, il paziente da trattare lo segnala il medico oppure le Usca, ma dopo un test diagnostico a carico del malato. Tutto però deve avvenire entro 5 giorni. Nella nostra scarsa efficacia di continuità assistenziale, pesa prima di tutto il test, perché il reperimento può fare inceppare il meccanismo». E la questione è nota da tempo. «Sappiamo bene che la criticità maggiore è la diagnosi - ammette Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici Chirurghi e odontoiatri - bisogna consentire ai medici di avere tamponi veloci». Ma anche la selezione dei pazienti sembra un grosso enigma. «Per arruolarli dobbiamo trovare collaborazione a livello territoriale - ammette Roberto Luzzati, direttore di malattie infettive dell'ospedale di Trieste, dove ancora di monoclonali non se ne usano - A ciò si aggiunga la difficoltà oggettiva da parte delle strutture ospedaliere, già sotto pressione, a dover gestire anche questo tipo di cure». Roberto Giacomelli, responsabile dell'ambulatorio covid per la terapia con anticorpi monoclonali del Policlinico universitario Campus Bio-medico di Roma, non si dà pace. «Questi anticorpi possono avere una grande capacità preventiva nell'evitare che un paziente vada a gravare in futuro sul carico dei reparti e delle terapie intensive. Eppure da noi finora sono stati segnalati solo in 19. Varrebbe la pena che sia i medici di medicina generale sia gli ospedali valutino con attenzione questi pazienti e ce li mandino. Ricordiamo che è stato fatto un grande investimento da parte dello stato su questa terapia che potrebbe ridurre in maniera significativa ospedalizzazioni e morti».

I pazienti

Di pazienti da trattare non se ne vedono molti neanche al policlinico Umberto I di Roma: finora circa una trentina i fortunati. «Bisogna migliorare il sistema e renderlo efficiente», spiega il farmacologo Filippo Drago, responsabile del centro hub per l'erogazione dei monoclonali nella Sicilia orientale. Ma non è così semplice, perché anche le faccende più spicce sembrano ostacoli insormontabili. «Per esempio - spiega Drago - non è di facile soluzione capire chi deve trasportare il paziente da casa al centro erogatore, usare un'ambulanza costa. E poi gli stessi pazienti hanno spesso una remora ad andare in ospedale». In Sicilia i più coraggiosi a quanto pare sono stati finora circa una trentina.

La procedura

Silvestro Scotti, segretario generale nazionale della Federazione italiana medici di medicina generale non ci sta a far passare l'idea che a rallentare il meccanismo siano i medici di famiglia. «Noi non abbiamo avuto indicazioni su come attivare la procedura. Non sappiamo a chi ci dobbiamo rivolgere, non esiste una piattaforma informatica su cui collegarci. E poi manca la formazione. Non è stato previsto neanche un corso sui monoclonali». Ma mentre la macchina ancora stenta a partire, incombe già un altro bel guaio. Se non ci si sbriga ad utilizzarli - è la preoccupazione degli esperti - i monoclonali potrebbero non servire più, perché non in grado di coprire le nuove varianti. E così alla fine le dosi non utilizzate andrebbero tutte sprecate.

 

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