Graphic novel: fumetti per vestire il romanzo

Graphic novel: fumetti per vestire il romanzo
di Paolo Maria MARIANO
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Domenica 17 Aprile 2022, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 2 Maggio, 17:44

Il “graphic novel”, come suggerisce l’Accademia della Crusca, ricordando la traduzione di “novel”, cioè “romanzo”, pur riconoscendo che nell’uso è molto diffusa la versione “la graphic novel”, probabilmente per assonanza di “novel” con “novella”, è una forma narrativa in cui testo scritto e disegni sono tra loro complementari. È più del libro illustrato perché il disegno invade la narrazione; è quindi un fumetto, ma non ha natura seriale, non è, cioè, un albo che presenta un episodio di una storia che continua il mese successivo, o la settimana successiva. È una storia autoconclusiva, ed è lunga un volume. Anche gli albi di “Topolino”, ma non solo quelli, contengono storie autoconclusive, ma sono di poche pagine, sono “racconti disegnati” non veri e propri romanzi, termine che presume una estensione maggiore. D’altra parte la classificazione di qualcosa che aspiri ad avere un contenuto artistico è sempre molto difficile. L’opera detta d’arte, quando è davvero arte (ma quando lo è?), tende a essere essa stessa misura di una propria eventuale classificazione, sempre che ce ne sia bisogno. Così l’affermare che uno scritto non è facilmente classificabile o che non lo è un disegno o una composizione musicale attiene più all’attività pubblicitaria che alla determinazione di un valore.

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Nel caso del romanzo grafico, la valutazione richiede non solo l’analisi separata della qualità della scrittura e del disegno, ma anche, se non forse soprattutto, del modo con cui scrittura e disegno interagiscono completandosi e fornendo al lettore un’esperienza di suggestioni visuali e verbali, dirette o indirette, che può essere un’esperienza estetica.

Di certo si può teorizzare cosa dovrebbe essere un’opera d’arte, soprattutto se attraverso quella pratica si volesse suggerire altro. Manifesti programmatici d’artista ce ne sono tanti e spesso hanno dato luogo a scuole, alcune velleitarie, altre di grande consistenza in dipendenza della qualità di chi ne ha fatto parte. Più è pronunciata la qualità del singolo, però, più sembra libera l’interpretazione del dettato di una qualsiasi scuola: in realtà il grande artista è sempre sostanzialmente solo. Allora, più che teorizzare in astratto quanto vorremmo vedere in un’opera d’arte, bisognerebbe forse guardare di volta al singolo risultato, come suggeriva Nabokov quando, da romanziere celebrato, si trovò a insegnare per qualche tempo storia della letteratura.

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Il racconto di Stig Dagerman

Nella piccola misura che queste righe e la mia capacità interpretativa offrono, con riferimento al romanzo grafico (“graphic novel”) cerco allora di riferirmi a due esempi che mi sono stati gentilmente inviati di recente.
Nel primo caso la scrittura e il disegno a essa connesso non sono coevi. Stig Dagerman, un giornalista e scrittore svedese che scomparve per sua mano nel 1954, a trentuno anni, scrisse nel 1946 un racconto intitolato “Ho remato per un lord”. Nel 2021 Davide Reviati ne ha fatto una versione per immagini pubblicata da Coconino Press. Il tratto “sporco” e la scelta del bianco e nero si coniugano con l’atmosfera suggerita dallo scritto di Dagerman: una storia di senso di colpa, di ricerca di un senso per le cose (l’acqua verde anelata dal rematore e dal lord, acqua che non è necessariamente quella dell’utopia - e quale poi? - nell’interpretazione suggerita da Goffredo Fofi nella postfazione, ma forse almeno quella di un senso, anche solo la speranza di esso), ma anche una storia di malinconia per la consapevolezza della condizione umana. Si sentono echi di Conrad (il rapporto con il mare e con la coscienza della colpa, vera o presunta che sia), della leggenda dell’Olandese Volante (il motoscafo con l’ignoto marinaio), di Stevenson (il rapporto del giovane rematore con i due anziani di famiglia - è un rapporto analogo all’interazione con gli adulti che ha il protagonista de “L’isola del tesoro”, ma anche, e forse soprattutto, quello di Dagerman con la propria famiglia: abbandonato dalla madre, il padre minatore, fu cresciuto dai nonni paterni).

Insomma, è un connubio disegno-narrazione ben risolto, in un certo senso una struttura quasi classica.

"Socrates", la leggenda di un medico-calciatore

L’altro esempio a cui vorrei riferirmi è “Socrates”, sceneggiatura di Marco Gnaccolini, grafica di Cosimo Miorelli (Becco Giallo, 2020). La pagina è costruita attraverso la destrutturazione delle vignette; si coniuga il disegno verista con quanto somiglia al gettare i colori sulla tela, tipico di quanto tendiamo a chiamare “action painting”: uno stile espressionista. La narrazione si sviluppa con il sovrapporsi di piani temporali diversi e di immagini oniriche. Entrambe queste scelte stilistiche aspirano a rappresentare l’interazione emozionale, esteriorizzata nell’impegno politico e interiorizzata nel travaglio interiore, tra la situazione politica del Brasile degli anni Sessanta-Settanta (di cui si ripresentano gli “echi” - per così dire - nell’attualità) e l’acuta sensibilità sociale e culturale di Socrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, meglio conosciuto come Socrates, uomo complesso e al contempo semplice, il “Dottore”, perché fu realmente medico, ma fu anche soprattutto calciatore, o meglio, un fine poeta dell’arte pedatoria.

La storia è significativa ed emozionante, con un surplus di rimandi, ma nella ricerca insistita di un certo “caos” grafico e anche narrativo (che un giovane assistente medico, una quinta teatrale della narrazione, sia italiano, e lo si sottolinei, è irrilevante, per esempio) c’è qualcosa di non completamente risolto. D’altra parte, però, rimane la suggestione di un’emozione. Socrates morì di emorragia intestinale il 4 dicembre 2011, di domenica, come aveva sperato, nel giorno in cui vinse il titolo il Corinthias, la squadra del popolo, nata quando cinque operai sfidarono la legge che impediva le riunioni nei sobborghi poveri, si misero sotto la luce di un lampione e fecero una colletta per comprare un pallone. Era il tempo della dittatura militare, quella detta “dittatura dei gorillas”, e – si sa – quanto più un sistema di governo è autoritario tanto più esso esercita il controllo delle informazioni, quindi delle opinioni e della possibilità d’espressione. Non si tratta di questioni scientifiche dove c’è l’evidenza della dimostrazione matematica oppure il risultato sperimentale, o perfino solo l’analisi statistica di tendenze di eventi quali contagi o altro. Si tratta, invece, dell’organizzare e del gestire la società; si tratta, cioè, di politica. E allora è ancor di più in gioco in maniera drammatica l’etica con cui si gestisce il potere, e ha ruolo il cinismo che talvolta diventa l’unica guida, come accade in chi nega l’evidenza dei fatti che si propongono nella loro tragica realtà, in chi subordina l’uccisione al proprio interesse, in chi dal proprio salotto privilegiato è incline ad appoggiare tutto ciò, invitando a soccombere alla protervia, senza percepire quanta miseria ci sia in tutto questo suo fare e quanto anche solo quello provochi disgusto.
Socrates lo sapeva quando toccava di tacco il pallone, mantenendosi ritto e nobile, nell’eleganza della sua corsa, ma era eleganza non priva di tristezza pur tra i lustrini della festa del tifo.

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