Coronavirus San Raffaele, lo pneumologo: «Io, 42 giorni in Lombardia, infettato dal focolaio romano»

Coronavirus San Raffaele, lo pneumologo: «Io, 42 giorni in Lombardia, infettato dal focolaio romano»
di Fabio Rossi
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Venerdì 12 Giugno 2020, 09:15 - Ultimo aggiornamento: 10:25

Vittorio Bisogni, pneumologo dell'ospedale San Pietro-Fatebenefratelli, ha passato sei settimane in prima linea, nel Bergamasco, a curare i pazienti di Covid nei giorni più duri della pandemia. Poi, tornato a casa, è stato suo malgrado contagiato dal coronavirus nel focolaio del San Raffaele.
«Ho fatto parte del primo contingente della task-force dei medici della protezione civile: io sono stato a Treviglio-Bergamo ovest per 42 giorni. Poi, il 5 maggio sono tornato a Roma, dove lavoro all'ospedale San Pietro e, come libero professionista, nel mio studio di Guidonia».

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E poi cosa le è successo?
«Tutti i tamponi e i test a cui mi sono sottoposto, in un mese e mezzo di lavoro in terapia sub-intensiva in Lombardia, sono risultati tutti negativi. Così come il tampone fatto il 27 maggio al San Pietro (il quarto per me), prima di tornare a lavorare in ospedale».

Fino a quando non le è capitata una situazione sfortunata.
«Il 1° giugno sono andato a fare visita a un mio paziente, che era stato dimesso da pochi giorni dal San Raffaele ed è successivamente risultato positivo. Così mi sono preso il virus anche io».
Ora come sta?

«Lunedì scorso ho fatto il tampone, che è risultato positivo. Sono asintomatico, o meglio paucisintomatico, con un po' di raffreddore».

La sua sfortuna è stata quella di incrociare, sia pur indirettamente, il focolaio del San Raffaele.
«Quello del San Raffaele è solo uno dei tanti cluster, non è pensabile che sia solo lì. Gli ospedali sono stati il maggiore focolaio di diffusione della Covid, nell'Italia settentrionale come nelle altre regioni del mondo».

Perché, secondo lei?
«Se un paziente Covid va in una struttura in cui non ci sono percorsi differenziati, se i malati non sono ben isolati e non vengono fatti controlli continui, si rischia la diffusione del virus nei reparti cosiddetti bianchi, dove non ci sono ufficialmente malati di Covid e i parenti possono andare liberamente a visitare i pazienti. A quel punto si crea un focolaio molto importante».

I dati del contagio non sono rassicuranti?
«Il virus non ci ha abbandonato. Tanto è vero che io, pur utilizzando tutti i dispositivi di protezione - mascherina Ffp3, visiera, guanti e disinfezione degli strumenti - sono stati infettato, magari in un momento che mi ero fermato un attimo per bere, perché assistere un paziente grave con tutte quelle precauzioni ti fa disidratare. La mia esperienza deve servire a ribadire che non va assolutamente abbassata la guardia».
 

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