Fase 2 Roma, il coronavirus chiude novemila aziende: una su dieci non riapre

Fase 2 Roma, il coronavirus chiude novemila aziende: una su dieci non riapre
di Francesco Pacifico
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Giovedì 28 Maggio 2020, 08:26 - Ultimo aggiornamento: 10:50

Oltre 9mila tra commercianti, artigiani, ristoratori e industriali, nella Capitale, hanno già deciso di chiudere la loro attività. Indipendentemente se la fine del lock down garantiva o meno loro di riaprire nella Fase 2. Cioè uno su dieci. Ma questo numero, tra Roma e provincia, potrebbe quadruplicarsi dopo l'estate, mettendo a rischio almeno 400mila posti di lavoro. Perché, come spiega Stefano Di Niola, leader capitolino della Cna, «c'è circa un terzo di imprese che sta valutando se è il caso di continuare». I fattori sono chiari: domanda bassa, e non solo per la mancanza di turisti, accesso al credito sempre più complesso e aiuti del governo o anticipi della cassa integrazione che tardano. «Anche chi ha riaperto spiegano gli esperti si è dato i prossimi tre mesi per decidere. Intanto, si guarda intorno per vedere se ci sono possibilità di riconversione e tiene in cig una parte dei dipendenti per contenere i costi fissi».

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VERSO L'AUTUNNO
È questo lo scenario dell'economia della Capitale nella Fase 2. Su mezzo milione di imprese registrate alla Camera di commercio - e stando alle rilevazioni di Unindustria, la Confindustria del Lazio, e della maggiori associazioni del terziario (Cna e Confcommercio) - sono soprattutto quattro i comparti che sono ripartiti con fatica e che pagano l'incertezza sul futuro: commercio, artigianato, ristorazione e servizi ricettivi, industria. Cioè il nerbo del Pil romano. Il banco di prova, quindi, sarà l'autunno. «Le imprese - spiega l'economista Rosario Cerra - non sono tutte uguali. Infatti avremo tre modelli diversi di ripartenza: le grandi avranno un modello a V, con caduta e risalita non appena partiranno i mercati di riferimento; le medie a U, perché dopo la crisi seguirà una stagnazione prima della ripartenza; le piccole a L, con calo e attività al minimo». La soluzione? Secondo le categorie servono aiuti per «ridurre i costi fissi».

Guardando ai numeri, su 65mila tra negozi di vicinato e laboratori artigiani, il 30 per cento non ha ancora aperto le saracinesche dopo il 18 giugno. Di queste un terzo ha già deciso di chiudere, mettendo in liquidazione l'attività o presentando i libri in tribunale.
Sommando i numeri, il tessuto capitolino rischia di ritrovarsi all'inizio dell'autunno con circa 20mila negozi e botteghe in meno, se la ripresa tarderà a manifestarsi in una città dove il terziario vive sempre più sul turismo. Ripresa meno traumatica, ma con non poche difficoltà sul fronte industriale. Tra Roma e Provincia, per esempio, sono oltre 25mila le realtà legate alla manifattura, con un numero di Pmi impegnate come controterzisti in settori con forte vocazione all'export come automotive e la farmaceutica. Secondo le rilevazioni dell'ufficio studi di Unindustria, il 60,1 per cento delle imprese è ripartito, il 30,3 è parzialmente chiuso il 30,3, lavora a scartamento ridotto, il 9,6 non ha ancora riaperto. E non è detto che lo faccia. Guardando allo stato dell'arte, il 76,8 per cento degli iscritti alla Confidustria locale «sta riscontrando problemi legati rallentamento della domanda»; alla richiesta del mercato di beni e consumi soprattutto sul fronte interno. Il 67,2 per cento degli imprenditori, invece lamenta «problemi legati alla gestione». Soprattutto il 40 per cento «ha dichiarato un livello di liquidità insufficiente per garantire il normale funzionamento dell'azienda».
Intanto si registrano le prime riconversioni.
Che «però - aggiunge Cerra - riguardano soprattutto i due opposti della piramide: piccoli come sartorie che si mettono a cucire mascherine negozi o ristoranti che si aprono al take away e le grandi imprese digitali. Gli altri fanno fatica». è il caso, ad esempio, di Massimiliano Ciotti, uno dei tanti piccoli imprenditori: «Ho chiuso da poco una scuola di formazione a Monteverde. Negli ultimi periodi abbiamo iniziato a offrire servizi sul fronte del web marketing: nell'era post Covid siamo ripartiti con piattaforme di ecommerce per i piccoli negozi o per gli estetisti oppure creando menu digitali per ristoranti. È difficile, ma non avevamo altra soluzione».

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