Roma, la psicosi dell'Isis scuote anche i romani «Ma qui il vero pericolo è prendere i mezzi»

Roma, la psicosi dell'Isis scuote anche i romani «Ma qui il vero pericolo è prendere i mezzi»
di Mario Ajello
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Mercoledì 9 Maggio 2018, 08:09
«Andare a piedi o finire arrostiti, ormai ci tocca questa scelta a Roma!». È sconvolta, ma terribilmente lucida nel suo mezzo paradosso, la ragazza romana che ha appena rischiato di morire, tra le fiamme dell'autobus. Quelle che hanno fatto esplodere, proprio nel centro del centro della città, ciò che resta o che restava dell'idea che Roma potesse essere una Capitale normale nella sua straordinarietà. Sui social e in giro per le strade non si fa che sentire un lamento con denuncia civile incorporata: «A Roma si rischia la vita a prendere un mezzo». Il senso di precarietà e di fragilità ha avuto un'impennata. Una fiammata. Un bum! Terrorismo? Macché. L'ordinario degrado che è diventato effetto bomba. Le immagini di Via del Tritone hanno fatto il giro del mondo, e un attentatuni deve essere apparsa ai più questa scena infernale, anche se mancano le lupare, i kalashnikov e il tritolo. S'è banalizzato perfino il male del terrorismo nel cortocircuito del 63 che è il cortocircuito di una Capitale.

Accorre il ministro dell'Interno, Minniti, alla fermata del salto in aria. Le ambasciate di svariati Paesi vogliono sapere subito che cosa è successo. Il botto che ha sconvolto Roma non è quello di un camion-kamikaze, eppure sembra di stare a Karachi nel Pakistan insanguinato. O a Beirut nei suoi momenti peggiori. E non si sa se sorridere mestamente - ma davvero non ci si riesce - pensando al centro dell'Urbe come a un pezzo di Saigon coloniale, martoriata dagli attentati nel romanzo di Graham Green, «L'americano tranquillo».
O bruciati o appiedati è dunque il punto di caduta finale, ma sembra che non ci sia mai la fine, di una crisi che si chiama degrado. E quell'alone di bruciato, che sale lungo la strada e lungo i palazzi, rende ancora più nere le speranze di resurrezione. Il fumo di Via del Tritone, guardato con fratellanza da quel cumulo di spazzatura abbandonata dall'altra parte della strada, somiglia a quella «nuvola di depressione» che Carlo Verdone - così ha raccontato - vede dal suo balcone del Gianicolo e descrive come «il buio del magnifico fallimento della mia città».

SALTO DI QUALITA'
E questo ennesimo fattaccio Atac non riguarda il solito contesto dei disservizi, degli incidenti continui, delle vetture scassate, dei travet che marcano visita, del pansindacalismo, della scioperite e degli altri mali endemici di questo vecchio mondo da azienda partecipata. Stavolta, il 63 che è il numero 13 dei bus finiti in fiamme quest'anno, e ha 15 anni di anzianità che sono troppi per dare sicurezza, è quello che costringe all'assurdo i cittadini romani: per cui se senti un boato, la prima cosa a cui pensi da adesso in poi non è che trattasi di una bomba ma di un mezzo pubblico in panne. «A Roma più che gli autobus, ci sono gli autobum!», si legge su Twitter. E il Signor Ernesto scrive così: «A Roma ci si dà fuoco per protesta contro la giunta che impedisce la risoluzione della vicenda Atac. E questo è il tredicesimo suicidio eclatante dall'inizio dell'anno». Ma anche la conferma del normale abbandono dei servizi pubblici in cui tutto è senza regole e controlli, e pure l'impianto elettrico di una vecchia vettura per passeggeri è lasciato a se stesso e nell'indifferenza e nell'incuria può accadere di tutto. Alla scenografia della città bucherellata - dove solo le voragini stradali svettano, e solo qui questa non è un'immagine contraddittoria - si aggiunge il fuoco come compagno del peggio, e così il quadro è più completo.

Per l'intera giornata, in cui non si è potuti passare da questo pezzo di città che pareva colpito dell'Anti-Stato e invece è stato martirizzato dal detonatore della malagestione ordinaria, i romani e i turisti si attaccavano al telefono in mezzo al caos del traffico in tilt, cercando qualche dritta dai propri interlocutori: «Ma dove devo andare per andare dove devo andare?» Qui no, è chiuso. Da questa parte, neanche: non si può. L'assenza di manutenzione di un bus - il famo a fidasse tra la macchina e l'uomo - ha danneggiato tutti. E se la strada fosse stata più stretta, magari Via Due Macelli, proprio lì dietro, o qualche altra via del centro dove passano i mezzi pubblici, l'esplosione avrebbe potuto provocare vittime. E se il 63 fosse saltato in aria in mezzo al traffico a Piazza Venezia, quante lamiere sarebbero schizzate da tutte le parti, quante macchine sarebbero andate a fuoco con il bus? La scena di guerra di ieri sarebbe potuta diventare scena di sangue. Il degrado sarebbe sfociato in morte. E non sono affatto incongrui tweet del tipo: «Attacco nel cuore di Roma rivendicato dall'Atac».

Walter Benjamin diceva che Roma è il luogo che «solo cambiandogli il nome, possiamo smarrire». E però, a nome immutato, stiamo rischiando ugualmente di smarrirla. Perché se somiglia a Karachi, o a Kabul, senza neppure quel senso di ineluttabile tragedia che travolge e disanima quelle città, non è più Roma. E se viene sfigurata dallo scoppio di un sistema elettrico significa che non è sicura, non dà sicurezza e di insicurezza, anche quando non si muore materialmente si muore lo stesso.
 
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