Violante: «Pd, sconfitta annunciata. Si torni alla politica dei doveri»

Violante: «Pd, sconfitta annunciata. Si torni alla politica dei doveri»
di Paola ANCORA
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Martedì 4 Ottobre 2022, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 18 Febbraio, 01:03

Il 25 settembre scorso un elettore su tre ha scelto di non andare a votare per le elezioni politiche. Luciano Violante non è fra questi: alle urne ci è andato anche nel giorno del suo 81esimo compleanno perché votare, prima che un diritto, è un dovere civico al quale un cittadino non dovrebbe mai sottrarsi. Ex magistrato, politico e accademico, Violante è stato presidente della commissione parlamentare antimafia dal 1992 al 1994 e presidente della Camera dal 1996 al 2001.
Presidente, ci dia una sua lettura del voto di domenica, 25 settembre.
«Dal 1992 a oggi, le maggioranze di governo sono sempre state battute alle Politiche e l’ultima tornata elettorale ha confermato questo dato storico. Guardando ai dati dei singoli partiti, il Movimento Cinque Stelle ha perso circa sei milioni di voti, la Lega 5 milioni e il Pd 800mila voti: è arretrato meno. Nella destra c’è stato un problema di travaso dei voti da Lega e Forza Italia a Fratelli d’Italia, nel centrosinistra un flusso di voti verso destra, dal Pd ad Azione, e verso sinistra, dal Pd ai 5Stelle. Certamente si è avuta una forma di polarizzazione che ha premiato con un voto di protesta i pentastellati e la forza di destra più coerente».
Il Pd è impegnato in una dolorosa analisi della sconfitta elettorale, anche in Puglia. Si accusano i vertici di aver sbagliato candidature, marginalizzando le donne e ignorando le istanze della base. Ed emerge un profondo scollamento fra i dem e il mondo del lavoro. Condivide?
«Sì. Da molti anni, ogniqualvolta il Pd ha incontrato un punto di difficoltà, si è cercata una ricollocazione nel sistema politico e non nella società italiana. Chi sta bene non ha bisogno di un partito e può vagheggiare su scioglimenti e cambi di nome, che nulla risolvono. Chi sta male, invece, ha bisogno di un partito che rappresenti i suoi bisogni. In Puglia mi sembra ci fossero nomi di papabili candidati e candidate che - per esperienza e prestigio – avevano i numeri per fare la differenza, invece si sono preferiti quadri interni a rapporti di potere spicciolo. La sconfitta è stata prevedibile e inevitabile. Del resto, la differenza fra una bocciofila e un partito, è che la prima cura gli interessi dei propri soci, il secondo quelli di tutti i cittadini».


“Un partito deve rappresentare i bisogni di chi sta male”, ha detto. Su questo, dieci anni di leggi elettorali senza preferenze e con le quali si è gradualmente sottratto potere decisionale al corpo sociale, hanno creato un vulnus democratico grave, confermato dal crescente astensionismo. Qual è la soluzione?
«Va posta innanzitutto attenzione alla frantumazione del corpo sociale in segmenti sociali.

I partiti sono strutture verticali e piramidali, non più comunità aperte e inclusive e questo pone un evidente problema di rappresentanza. Ma se invece di partire dai corpi sociali partiamo dai bisogni la prospettiva diventa anche più chiara. Quali sono oggi i bisogni? Una retribuzione e una vita dignitose, un sistema di trasporti efficiente, un sistema scolastico capace di costruire il futuro dei ragazzi. Sono bisogni trasversali, perché anche il ceto medio si sta proletarizzando. Esiste quindi la necessità di ricostruire un rapporto diretto fra la società e i partiti, che devono interpretare e risolvere questi bisogni. Ecco perché ritengo essenziale, in questa fase, tornare al proporzionale: i cittadini devono poter scegliere i propri rappresentanti e i partiti tornare a lavorare nella società per prendere i voti. Un sistema elettorale che premia le alleanze, invece, costringe ogni partito a smussare i propri caratteri identitari e il risultato sono coalizioni stinte».


Tuttavia i detrattori del proporzionale sostengono che non contribuisca a cementare la stabilità dei governi, frammentando il sistema partitico.
«Più che di quella dei governi, mi preoccuperei della instabilità dei parlamentari: 300 cambi di gruppo in questa legislatura, 400 in quella precedente. Un sintomo di come i partiti non siano più sufficientemente solidi: ci si sta per convenienza. La crisi delle identità ideali – attorno alle quali si costruisce il senso di appartenenza - e dei programmi produce scomposizione sociale e migrazione degli eletti. Si vuole garantire stabilità? Due riforme vanno fatte subito: la sfiducia costruttiva e il voto delle Camere in seduta comune per la legge di Bilancio e per i provvedimenti sui quali si pone la fiducia».
La sfiducia costruttiva è prevista nella più ampia riforma dell’architettura dello Stato in senso presidenziale proposta da Fratelli d’Italia. Cosa ne pensa?
«Nel programma di FdI è prevista la sfiducia costruttiva, certo, ma non si capisce come si debba “sposare” con il presidenzialismo, che è la riforma prioritaria che il centrodestra intende portare avanti. Resto dell’idea che l’unico sistema necessario e funzionale, in questo momento, resti il proporzionale con soglia di sbarramento, alla tedesca».
FdI spinge per il presidenzialismo, la Lega per l’autonomia differenziata. Come si terrebbero insieme riforme tanto diverse? Ed esiste la possibilità di rivoltare la Costituzione, trasformando il Paese in una federazione come gli Usa?
«Sarebbe molto complicato trasformare l’Italia in un Paese federale e non garantirebbe comunque la stabilità necessaria. In più, il presidenzialismo presuppone vi sia rispetto fra le forze in campo. Come è avvenuto negli Stati Uniti di Barack Obama, poi di Trump e infine di Biden, se le parti sono fortemente contrapposte il presidenzialismo lacera, non ricompone».
La commissione bicamerale che ha esaminato il Ddl sull’autonomia differenziata non ha ritenuto strettamente indispensabile la previa definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni. Si rischia l’ulteriore marginalizzazione del Sud?
«L’autonomia non può ridursi al distacco sociale di alcune Regioni rispetto ad altre, sarei contrario a qualsiasi riforma costruita sull’egoismo regionale. Ma va detta chiaramente un’altra cosa: il Sud sceglie da sé la sua classe dirigente locale, dai sindaci ai presidenti di Regione. Lecce, Bari o Taranto non mi pare siano male amministrate, ma nel Sud – non solo in Puglia – ci sono casi di mala gestio sui quali i cittadini devono interrogarsi. Si è sempre responsabili delle proprie scelte».
L’Emilia Romagna del democratico Stefano Bonaccini, papabile segretario del Pd per il dopo-Letta, ha seguito le orme della Lega sul tema dell’autonomia. Un errore tattico, visto l’exploit dei 5Stelle al Sud?
«No, un fatto di intelligenza politica. Non si lascia ad altri un tema così delicato, tanto più se si può riuscire a incidere sui contenuti della riforma perché non siano contenuti dissolutori dell’unità nazionale. Sono curioso di comprendere come si pensa di coniugare il presidenzialismo caro a Fratelli d’Italia con la riforma autonomista voluta, invece, dalla Lega».
Sono 20 anni che in Italia si cerca di riformare la Costituzione senza riuscirci: hanno fallito prima Silvio Berlusconi e poi Matteo Renzi. Eppure che si debba portare a compimento le modifiche avviate con la riforma del Titolo V è punto condiviso da tutti. Cosa impedisce di intervenire sulla Carta costituzionale?
«Ritengo si debba puntare al minimo indispensabile e non al massimo possibile, come hanno fatto Berlusconi e Renzi. Sottoporre riforme vaste al referendum è rischioso, vista la complessità di certe materie. I cittadini, infatti, hanno votato prima contro Berlusconi e poi contro Renzi. Per questo andrebbe fatto il minimo indispensabile: sfiducia costruttiva, Parlamento in seduta comune per la fiducia e la legge di Bilancio e sistema elettorale proporzionale con soglia di sbarramento al 5%, come avviene in Germania».
Con un governo di centrodestra, a sinistra ci si dice preoccupati di una possibile compressione dei diritti e delle libertà civili. Lo è anche lei?
«Persone e partiti si giudicano in base ai comportamenti e non alle etichette. Il tema centrale per me è un altro. I diritti individuali, senza un sistema di doveri e senza i diritti sociali, sono armi dell’individuo contro un altro individuo. In questo momento storico, concentrerei le forze sui diritti sociali e sui doveri. Di doveri non parla il Papa, non ne parlano i partiti, di rado le istituzioni. Mi rendo conto sia difficile fare un comizio dicendo “ragazzi ora vi parlo dei doveri”, ma va introdotta una politica dei doveri».
Un esempio?
«Mi ha colpito molto, la scorsa primavera, la contestazione contro presidi e insegnanti che hanno proibito un certo abbigliamento seduttivo di alcune studentesse a scuola. La scuola è come la strada o è un luogo dove si svolge una funzione della Repubblica? E l’abbigliamento caratterizza il rapporto con il luogo nel quale ci si trova? A scuola, quindi, ci si deve andare vestiti in maniera appropriata. I doveri si fondano sul rispetto, oggi non sufficientemente coltivato».
Viviamo un’epoca di diffusa deresponsabilizzazione, secondo i sociologi legata alla destrutturazione familiare iniziata decenni fa. Condivide?
«Siamo davanti a una deresponsabilizzazione complessiva di tutte le agenzie formative: il partito, il sindacato, la Chiesa, la scuola, la famiglia. Quest’ultima, in particolare, ha scaricato sulla scuola le proprie responsabilità, dimenticando che la democrazia si regge sulle gambe di cittadini democratici, al di là del valore delle classi dirigenti. Per uscire da questa impasse, abbiamo bisogno di riscoprire la cultura civile. E uno dei temi da affrontare è la retribuzione degli insegnanti, Letta ha fatto bene a porlo. Paghiamoli meglio, perché possiamo sforzarci quanto vogliamo di aggiustare l’auto, ma se non rispettiamo e non paghiamo l’autista la macchina non parte».

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