Il reportage/Dall'Ucraina all'Europa, in fuga dalle bombe: il viaggio insieme ai profughi di guerra

Foto di Andrea Gabellone
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di Andrea GABELLONE
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Domenica 24 Aprile 2022, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 17 Febbraio, 18:22

L'autobus che collega Chişinău a Odessa, in Ucraina, è vuoto. I chilometri che separano la capitale moldava dalla città della celebre scalinata Potemkin sono circa 180, ma il viaggio è lungo: sei ore che, arrivato alla frontiera ucraina, vengono cadenzate dai checkpoint dell’esercito di Zelensky. Ce n’è uno ogni 8 o 10 chilometri. Un filtro rigorosissimo. Durante i controlli, negli spazi angusti del bus, i militari armati di kalashnikov si muovono a fatica. Il calcio dei mitragliatori sfiora ora una spalla, ora il sedile. Ispezionano maniacalmente ogni bagaglio. Il primo incontro con la guerra che si sta consumando alle porte dell’Europa è qui, su un autobus di linea diretto verso il Mar Nero.

La gallery

 

La città


Odessa è una città bellissima: non riesce a nasconderlo nemmeno dietro le centinaia di sacchi di sabbia che gli abitanti, all’inizio del conflitto, hanno riempito lungo le spiagge che d’estate pullulavano di turisti russi e sistemato poi lungo i perimetri dei monumenti, dei palazzi del governo, delle abitazioni. Strategica per il suo porto e la sua posizione, Odessa è sospesa nel limbo: c’è chi per strada vende fiori, porta i bambini in bici al parco mentre le navi russe si stagliano all’orizzonte, a una manciata di chilometri, pronte ad attaccare. Buona parte delle attività commerciali è chiusa. Gli eleganti palazzi del centro fanno da cornice alle barricate, alle mine anticarro sistemate lungo i boulevard e ai cavalli di frisia per impedire il temuto passaggio dei mezzi nemici. A imbastire la difesa, qui, hanno pensato anche i bambini: nelle scuole di Odessa, insieme alle maestre, i più piccoli assemblano le reti mimetiche utili per nascondere cingolati e barriere presenti nelle trincee e vicini ai vari obiettivi sensibili del centro abitato. La guerra che ha smembrato le famiglie, mandando gli uomini al fronte e costringendo alla fuga donne, bambini e anziani, si annuncia ogni giorno, più volte al giorno, con le sirene d’allarme che, di notte, precedono i bombardamenti e i colpi della contraerea ucraina.

Il sonno, anche il mio, diventa leggero. I sensi vigili come mai prima perché il pericolo è palpabile. «La paura serve – mi dice un collega più esperto, nella hall dell’albergo dove soggiorniamo – e se tu avverti qualcosa che non va, un pericolo che io non vedo, dimmelo subito». Perché anche alle bombe e al pericolo ci si abitua. E si rischia il passo falso.

Le sirene


È notte, il coprifuoco è scattato da un pezzo: le sirene continuano a risuonare e i giornalisti italiani, al buio, battono sui tasti dei computer per buttare giù la bozza dei pezzi che andranno in stampa domani. Intanto aspetto l’autorizzazione dell’Esercito ucraino per poter iniziare a scattare qualche fotografia: son venuto dal Salento fin qui per questo. Lo sguardo si posa sul bancone della reception: un foglio con le indicazioni sui rifugi antiaerei più vicini ha sostituito quello con le precauzioni cui attenersi per evitare i contagi da Covid. La guerra ha di colpo cancellato la pandemia. «Vorrei tanto – singhiozza la proprietaria dell’hotel – che tornaste qui quando la guerra sarà finita. Che tornaste da turisti».
L’allarme passa, il tempo di rubare alla notte qualche ora di sonno e si torna in strada. A Odessa ci sono anche cittadini italiani, ancora oggi. Pur nel clima di tensione che si respira, fra loro c’è chi ha deciso di resistere, a modo suo, continuando a lavorare. È il caso di Roberto Armaroli, chef e imprenditore bolognese, che tiene aperto ancora oggi uno dei suoi tre ristoranti. Si trova in un elegante seminterrato in centro: «Ho preso tutte le riserve di cibo che avevo e le ho trasferite qui. Ho rimodulato il menu, ci sono le ricette di mia nonna: faccio quel che posso, una cucina più spartana. Eravamo 80 e siamo rimasti in 15, ma continuiamo a lavorare. Fortunatamente non abbiamo vetrine che affacciano sulla strada; chi viene a pranzo da qui non vede kalashnikov o mimetiche. È come prendersi una pausa dalla guerra. E quando suona l’allarme, non sono costretto a mandare via i clienti: questo locale è già di per sé un rifugio. Finché ci sarà cibo, rimarrò qui nel mio ristorante».
La resistenza di Armaroli è la resistenza di tanti, stranieri e ucraini. Di tutti coloro che hanno scelto di rimanere a vivere in un Paese in guerra, combattendo con l’unica arma a loro disposizione, la normalità – rivendicata, bramata con una forza che si avverte in ogni angolo - in un contesto che di normale non ha davvero nulla. Anche oggi, che sono passati esattamente due mesi dall’inizio del conflitto.

Per le strade


Le vetrate di alcune palazzine in periferia sono andate completamente distrutte: si vedono distintamente mobili, croci, stoviglie, squarci di vite degli altri. Raggiungo la spiaggia. L’accesso è vietato: ci sono mine anti-uomo ovunque, per impedire ai russi di sbarcare. Poco distante, un gruppo di ucraini e la banda dell’Esercito cantano a pugno chiuso l’inno nazionale guardando l’orizzonte, il mare, le navi di Putin schierate. Sono giovani, orgogliosi, arrabbiati. Sulla strada del ritorno un passante, vedendomi fotografare obiettivi sensibili, mi accusa di spionaggio. Tre uomini in divisa mi inseguono coi mitragliatori puntati, vogliono i documenti: la perquisizione è accurata. Mi portano in caserma, dove nessuno parla inglese: quattro ore di fermo accanto a un militare armato che rimane per tutto il tempo a due metri da me. L’aiuto del traduttore automatico e un foglio con l’autorizzazione dell’Esercito per fare il mio lavoro sono le chiavi per essere rilasciato.
In tanti sono andati via da qui. I pullman della linea che mi ha portato a Odessa seguono anche il percorso contrario: carichi all’inverosimile di disperazione, accompagnano alla frontiera centinaia di persone in fuga. Donne, bambini e anziani: sono loro i profughi, sradicati dalle loro case, dalle loro vite. «We just want peace», vogliamo solo la pace, scandisce Natalia dal fondo del pulmino che accompagnerà lei e sua figlia Sofia, 12 anni, fino a Chişinău. Piange: «Non abbiamo una meta e non so dove ci porteranno, ma non voglio che mia figlia mi veda così. Mio marito è rimasto a combattere, chissà quando riusciremo a rivederlo». La frontiera è attraversata ogni giorno da madri con i propri figli e nello sguardo già due mesi di conflitto, di morte, di devastazione. Qualcuna arriva in bus, tante altre a piedi, con i più piccoli tenuti per mano. Il flusso, soprattutto dalle regioni di Odessa e Mykolaiv, non è caotico come all’inizio della guerra, ma è incessante. I mezzi dell’Unhcr - l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati - percorrono senza pause i tre chilometri che dividono la frontiera moldavo-ucraina dal campo base, dove le Ong garantiscono un pasto caldo e assistenza a chi ha appena superato il confine. Una frontiera segnata, idealmente, dagli abbracci dei sopravvissuti, della nonna che ritrova i suoi nipoti, della madre che incontra la figlia. La bellezza del conforto.
Nel quartiere di Buiucani a Chişinău, in una delle case che accolgono i profughi di Odessa, Ruslan è concentrato a scrivere sul quaderno di grammatica. Ha 10 anni, davanti una tazza di tè caldo e il telefono cellulare della mamma. Sullo schermo, si intravede il volto della maestra, che dalla sua casa di Odessa, continua a fare lezione alla sua classe. I compagni di Ruslan sono collegati da tutta Europa: dalla Moldavia, dalla Romania, dalla Germania, dall’Italia, dalla Francia. La maestra ha voluto che restassero tutti insieme, avvinghiati a questo brandello di normalità: un libro, i compagni, la scuola. Per imparare a scrivere, chissà, un futuro di pace.

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