Ex Ilva, i Riva condannati a 22 e 20 anni di carcere. A Vendola 3 anni e mezzo, assolto l'ex prefetto Ferrante. Impianti confiscati/L'elenco delle condanne

Ex Ilva, i Riva condannati a 22 e 20 anni di carcere. A Vendola 3 anni e mezzo, assolto l'ex prefetto Ferrante. Impianti confiscati/L'elenco delle condanne
di Mario DILIBERTO
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Lunedì 31 Maggio 2021, 10:33 - Ultimo aggiornamento: 17 Febbraio, 06:36

Nicola Riva condannato a 20 anni di reclusione; Fabio Arturo Riva a 22 anni; l'ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido e 3 anni e l'ex governatore della Puglia, Nichi Vendola, a 3 anni e mezzo. Un verdetto destinato a scrivere una pagina della storia di Taranto, quello emesso poco fa dai giudici di Taranto nel processo "Ambiente Svenduto" sul disastro ambientale causato dall'Ilva. E forse a spianare la strada ad una visione davvero diversa per la città dei due mari, trasformata negli anni 60 in un polo siderurgico. Anzi, nel centro dell'acciaio più importante d'Europa. I giudici hanno disposto anche la confisca degli impianti.

(Nella foto, Fabio e Nicola Riva)

La sentenza conclude il primo grado di giudizio del processo Ambiente svenduto con al centro l'inquinamento del capoluogo jonico. Un verdetto che giunge a quasi nove anni dal sequestro degli impianti dell'Ilva, bollati dai giudici come fonte di malattia e morte, per l'alto numero di tumori che avrebbero provocato nei tarantini.

Oltre cento mesi, infatti, sono passati dal 25 luglio del 2012 quando l'inchiesta esplose tra arresti e sigilli a cokerie e acciaierie.

Le altre condanne

Girolamo Archinà, ex responsabile rapporti istituzionali, condannato a 21 anni e sei mesi.

Luigi Capogrosso, ex direttore di stabilimento, è stato condannato a 21 anni;

Marco Andelmi: ex dirigente, condannato a 11 anni e 6 mesi 

Angelo Cavallo: ex dirigente, condannato a 11 anni e 6 mesi 

Ivan Dimaggio: ex dirigente condannato a 17 anni 

Salvatore De Felice: ex dirigente, condannato a 17 anni

Salvatore D'Alò: ex dirigente, condannatro a 17 anni 

Cosimo Giovinazzi: ex capo reparto movimento ferroviario, condannato a 2 anni pena sospesa

Francesco Perli: ex legale gruppo Riva, condannato a 5 anni e 6 mesi

Adolfo Buffo: ex direttore dello stabilimento, condannato a 4 anni

Antonio Colucci: ex dirigente, condannato a 4 anni

Giuseppe Dinoi: ex dirigente, condannato a 2 anni e 6 mesi 

Lanfranco Legnani: ex fiduciario, condannato a 18 anni e 6 mesi

Alfredo Ceriani: ex fiduciario, condannato a 18 anni e 6 mesi 

Giovanni Rebaioli: ex fiduciario, condannato a 18 anni e 6 mesi

Agostino Pastorino: ex fiduciario, condannato a 18 anni e 6 mesi 

Enrico Bessone: ex fiduciario, condannato a 17 anni e 6 mesi 

Giovanni Florido: ex presidente della Provincia di Taranto, condannato a 3 anni 

Michele Conserva: ex assessore provinciale, condannato a 3 anni 

Lorenzo Liberti: ex consulente della Procura, condannato a 15 anni e 6 mesi 

Nicola Vendola: ex governatore della Regione, condannato a 3 anni e 6 mesi 

Giorgio Assennato: ex direttore di Arpa Puglia, condannato a 2 anni, pena sospesa 

Giovanni Raffaelli: ispettore tecnico, condannato a 2 anni pena sospesa

Vincenzo Specchia: ex direttore generale provincia di Taranto, condannato a 2 anni pena sospesa

Le assoluzioni

Assolti Bruno Ferrante, ex prefetto di Taranto, e l'allora sindaco della città Ippazio Stefano. Assoluzione anche per Giuseppe Casartelli, fiduciario della famiglia Riva insieme a Cesare Corti, Francesco Manna (capo di gabinetto del presidente Vendola), Luigi Pelaggi (capo della segreteria tecnica Ministero dell'Ambiente), Dario Ticali (presidente della commisione Aia), Caterina Vittoria Romeo (addetto relazioni istituzionalei Ilva) e il funzionario regionale Pierfrancesco Palmisano.

Prescrizione invece per gli allora assessori Nicola Fratoianni e Donato Pentassuglia, Davide Filippo Pellegrino, direttore dell'atrea Sviluppo economico, Massimo Blonda, direttore scientifico di Arpa Puglia, responsabile servizio prevenzione Ilva Sergio Palmisano, il dirigente Ilva Vincenzo Dimastromatteo, Angelo Veste, Cataldo De Michele, Antonello Antonicelli (dirigente del settore Ecologia e Ambiente della Regione).

L'inchiesta


Quel ciclone giudiziario travolse la grande fabbrica alle porte della città, accusata di aver sputato per decenni polveri e fumi sul centro abitato di Taranto, distante solo una manciata di metri. Un cocktail di veleni, sostengono dalla procura, che sarebbe la causa dei picchi di patologie oncologiche, respiratorie e cardiovascolari, troppo spesso con esiti letali per i tarantini e purtroppo anche per i bambini.
Sarà la Corte di Assise - nelle motivazioni alla sentenza - a spiegare alla città e al mondo perché quell'industria, battezzata come strategica da un numero considerevoli di decreti, non a caso denominati salva-Ilva, sia stata gestita per i diciassette anni di proprietà del gruppo industriale guidato dalla famiglia Riva, con modalità «criminali», come ha tuonato il pm Mariano Buccoliero, prima di concludere la requisitoria con la richiesta di quattro secoli di carcere da spalmare tra proprietari, manager e dirigenti dei reparti del gruppo industriale.
La difesa aveva sostenuto, invece, che quella fabbrica era un luogo di «sudore e fatica» e non una fucina di morti. Un dilemma di non poco conto se si pensa, per un attimo, che alla sbarra è finita l'attività della più grande acciaieria d'Europa. E che quelle ciminiere hanno scandito gli ultimi sessant'anni di Taranto.
Ecco perché la sentenza di Ambiente svenduto è inevitabilmente destinata a riscrivere la storia della città e a incidere sui progetti per il suo futuro, già dal momento successivo alla lettura del dispositivo, affidata al presidente della Corte Stefania D'Errico.

Al verdetto, infatti, si giunge dopo oltre trecento udienze, nelle quali sono stati macinati atti raccolti in migliaia di faldoni. Alle spalle cinque anni di confronto asprissimo, in cui il processo è andato avanti in un clima di fortissima contrapposizione, tra ricusazioni, e richieste di spostare il procedimento in altra sede, sino alle ultime fasi, quando la Corte ha respinto ogni richiesta di slittamento della discussione finale, comprese quelle motivate dal rischio Covid. Il frutto avvelenato, è il caso di dirlo, di un processo che mette a fuoco imputazioni gravissime, come quelle di associazione per delinquere, disastro ambientale e avvelenamento delle sostanze alimentari, che il pool di pm collega proprio alle emissioni inquinanti di quei reparti finiti sotto chiave, anche se con facoltà d'uso, ben nove anni fa.

Un quadro fosco reso ancora più cupo dalle vicende collaterali che hanno portato i vertici politici dell'epoca ad ingrossare le fila dei 44 imputati.

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