I 40 anni della Sacra Corona Unita, il professor Ciconte: «Le radici nell'Ottocento, poi una lunga incubazione»

I 40 anni della Sacra Corona Unita, il professor Ciconte: «Le radici nell'Ottocento, poi una lunga incubazione»
di Roberta GRASSI
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Domenica 30 Aprile 2023, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 1 Maggio, 12:51

Quarant’anni tondi, domani. Ma in realtà, forse, sono molti di più. Vecchia o giovane che sia, la Sacra corona unita è viva e vegeta e apparentemente fiaccata. Ha cambiato più volte forma e sostanza, interessi e focus da quel primo maggio 1983 in cui il mesagnese Pino Rogoli le diede i natali, con un patto di sangue stretto con il clan ‘ndranghetista Bellocco di Rosarno. Nel carcere di Bari. È la datazione più accreditata. C’è anche chi con un pizzico di “romanticismo” criminale, colloca il primo vagito della mafia sud pugliese nella notte di Natale del 1981. Forse una suggestione, poco importa. Quel che si scopre è che la tensione verso le ombre della criminalità, la “malavita” intesa in senso tradizionale, quella fatta di affiliazioni, riti, tatuaggi, dai connotati prettamente settari, inizia a prendere forma in Puglia dalla fine dell’Ottocento. Uguale e identica a quella che è oggi? Nei meccanismi, sì. Tanto da ingenerare un dubbio, una sorta di interrogativo “assoluto”. La criminalità è un fenomeno connaturato all’essere umano, o invece è il sintomo di altre patologie della società? «No, connaturato non direi. Ci sono importanti connessioni storiche: già nell’Ottocento c’erano condizioni tali, soprattutto nelle carceri, per far sì che il seme germinasse. Ogni fenomeno ha la sua gestazione, certi comportamenti vengono poi replicati». A parlare è Enzo Ciconte, docente a contratto di Storia delle mafie italiane all’Università di Pavia, ed è stato consulente della commissione parlamentare Antimafia per molti anni. Ha analizzato i fenomeni mafiosi calabresi e campani, andando a far riemergere dalla polvere degli archivi documenti datati e difficili da reperire. Ha ripescato il lavoro fatto dai cronisti dell’epoca. E stavolta, nell’ultimo suo lavoro, “Carte, coltello picciolo e carosello”, edito da Manni, si è occupato delle origini della criminalità organizzata pugliese. Partendo da molto lontano.

Cosa viene fuori dalle sue indagini?
«La camorra tarantina e barese nascono nelle carceri». 

Quando?
«Prima della fine dell’Ottocento.

Ma la loro genesi è il frutto di una lunga incubazione». 

Insomma, esistevano già i progenitori della malavita organizzata odierna. 
«Il collegamento lo si trova proprio nelle carceri. La Sacra corona unita nasce con Pino Rogoli che la fonda in un penitenziario». 

Tuttavia il fenomeno mafioso, per lo meno all’apparenza, sembrerebbe molto cambiato. Quando in realtà, nei suoi anfratti più profondi, rimane sempre identico a se stesso. 
«Sono i meccanismi che sono identici. Il problema è che non c’è ancora una capacità di affrontare il problema nel suo complesso. Siamo condizionati da una visione della mafia come fatto unicamente criminale. Invece, c’è da considerare con gran rilievo la questione sociale. Nel libro ricostruisco due processi, uno si è svolto a Bari l’altro a Taranto: ad essere condannate sono sempre persone umili. Sono poveracci. Ho elencato tutti i mestieri proprio per sottolineare questo tratto. Affrontare oggi la questione sociale, vuol dire togliere l’acqua in cui nuota il pesce. E quindi farlo morire. Invece, noi continuiamo ad essere abituati a una visione carceraria». 

Cioè?
«Come se bastasse mettere la gente in galera per risolvere i problemi. Non è così: ci sono problemi sociali, economici, politici e culturali. Se non vengono affrontati in un’ottica di insieme, il pendolo va avanti. E periodicamente assistiamo a questi fenomeni. 

Lei sostanzialmente associa la devianza al disagio. 
«Una parte della devianza deriva dal disagio. Poi c’è l’altra parte, che coinvolge le classi dirigenti». 

Appunto, come si spiega? Si parla così tanto di borghesia mafiosa. Di colletti bianchi. 
«Ne sono assolutamente consapevole. È da trent’anni che spiego che le mafie, anche quelle tradizionali, non nascono nelle retrovie della miseria, ma anche nelle città. Bari, di cui parlo nel libro, era una città in crescita economica».

La mafia è giunta quindi fino ad oggi e potrà varcare i confini del tempo.
«I fatti dell’Ottocento spiegano molto dei tempi contemporanei. I meccanismi mafiosi si replicano, ma ciò accade perché la struttura funziona. Il meccanismo mafioso che prevede l’associazione, il giuramento, i rituali, la fedeltà, è stato replicato da altri. E difatti, sono i prigionieri politici ad aver insegnato la settarietà ai mafiosi. Anche con l’esempio della Massoneria». 

Lei che si è occupato della genesi e dello sviluppo delle associazioni criminali, quali tratti in comune ha individuato?
«Le regole e il meccanismo di funzionamento che sostanzialmente è lo stesso. Cambia qualcosa, ma poco». 

Qual è secondo lei l’organizzazione criminale più forte?
«La ‘ndrangheta, senza alcun dubbio». 

E la Scu?
«La criminalità foggiana è l’organizzazione pugliese più feroce». 

Pensa che la mafia si possa battere?
«Certo che sì, non ho dubbi. Diversamente perché dovrei occuparmene? Ci vuole una repressione giudiziaria, ma non solo. È determinante che ci sia una scuola che funzioni, che inculchi certi principi e determinati diritti: la meritocrazia, il trionfo dei talenti sulle raccomandazioni o sul denaro. La cultura è fondamentale. Bisogna avere poi un Parlamento che faccia buone leggi che favoriscono la legalità e non i criminali; una situazione economica e sociale che non faccia sì che i giovani, magari senza mezzi, vengano adescati e tirati per la giacchetta in ambienti malsani. E poi, un’ultima cosa. L’informazione è importante, se non ci fossero stati resoconti puntuali, non avremmo potuto ricostruire e studiare il fenomeno». 

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