Il personaggio/Michele che abbraccia tutto (e tutti): la vittoria solitaria del populista soft

Il personaggio/Michele che abbraccia tutto (e tutti): la vittoria solitaria del populista soft
di Francesco G. GIOFFREDI
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Martedì 22 Settembre 2020, 06:57 - Ultimo aggiornamento: 10:12

È il tanto che a volte diventa troppo, è il molto che promette tutto e magari il suo contrario. Michele Emiliano è l’aggettivo di quantità della politica pugliese, da ieri ne diventa pure il dominus quasi incontrastato, marchiando a fuoco con la propria leadership tutto il centrosinistra, imponendo la sua legge ad avversari mai così agguerriti e attrezzati e in definitiva segnando un’epoca, una fase storica. Ribalta il pronostico e lo fa quasi da solo, con la sua rete costruita pezzo dopo pezzo, senza nulla pretendere dai partiti nazionali. E pazienza se quel tanto che eccede nel troppo è spesso, molto spesso, gonfio di contraddizioni, di inciampi dialettici o amministrativi: nella notte più dolce i picchi contraddittori di un quinquennio certo non scompaiono, ma si mitigano, si stemperano. Da domani, poi, si vedrà. 

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Populismo a dosaggio variabile (per sua stessa ammissione), la capacità di adattarsi come un guanto all’interlocutore o alla platea, la strizzata d’occhio al popolo e la promessa di un futuro migliore, e poi vulcanico, ma anche decisionista, muscolare, volitivo, la leadership che è fisicità dirompente, l’abbraccio e i baci, le lacrime e il sudore, il sentiment e un formidabile istinto che gli permette di annusare l’aria e capire in un attimo dove tira il vento, dove “la gente” vuole che vada “la politica”, i modi spicci da amministratore di quartiere che sfoggia tanto la baresità più verace quanto la postura da poliziotto buono e inflessibile. Un capitano-giocatore che fa sentire tutti importanti, centrali, nella consapevolezza collettiva che però è lui l’unico collante, il motore e in definitiva il “one man band” che dispensa sempre qualcosa a tutti.
E poi inclusivo, anche troppo – dicono i più cattivi: nella coalizione a geometria variabile ha accolto tutto e tutti, il Pd e la sinistra vendoliana, i vecchi centristi e pezzi di destra, persino ex o neo-fascisti, società civile e ceto dirigente dal lungo curriculum. Con una ossessione, tipo Achab con Moby Dick: i cinque stelle sono la balena bianca di Emiliano, inseguiti, corteggiati in una specie di gioco a specchi riflessi, io sono come loro, ma loro mi bollano come vecchio e clientelare. Intanto, s’è preso una bella fetta dei loro voti.

Le strategie. Emiliano ha vinto provando a essere tutto e il suo contrario, se stesso e un altro da sé. Ha fatto campagna elettorale senza dirlo, una specie di capolavoro: niente tour, poca propaganda ufficiale, zero politica e invece l’immagine – studiata con cura – del governatore che fa, lavora, decide, assume precari, affonda le braccia nelle emergenze e non perde tempo col “teatrino dei politicanti”, insistendo sul mastice identitario della “Puglia che ce la fa”. Ma in realtà ogni tassello, ogni scelta, ogni passo erano politica pura, campagna elettorale solo all’apparenza a bassa intensità. Persino l’armadio di polo della Protezione civile, indossate durante dirette Facebook e o collegamenti tv, è stato un jolly ben speso. 
In questi mesi ha dovuto barcamenarsi tra due sponde: la pandemia da coronavirus, che ha rischiato di far implodere la sanità pugliese (e tutto sommato è andata bene); e la necessità di rilanciare e rilucidare il programma di governo per i prossimi cinque anni, continuità ma senza esagerare, dribblando le trappole, gli errori, le brusche marce indietro del quinquennio appena trascorso, per esempio su xylella, Psr, la stessa sanità o anche Tap e Ilva, spesso con molto dire e poco fare, o dicendo e poi cambiando tutto, carezze a qualche negazionista e poi fede nella scienza, il gasdotto no e il gasdotto sì.
Cosa sarà, ora? Emiliano imparerà, correggerà il tiro? O accentuerà tutto, amplificato dall’onnipotenza che solo una vittoria così complessa e preziosa sa darti?

Intanto però non chiamatela “Primavera pugliese”, il vento progressista che cominciò a soffiare nel 2004-05: questo sarà il decennio “solo” di Emiliano, che dal vendolismo s’è distaccato da tempo, dalla prima campagna elettorale regionale, quando volle segnare una cesura con il predecessore, le sue idee, i suoi metodi. Disse nel 2015: «Per 10 anni la Regione non ha avuto un programma, ma solo due bellissimi discorsi. Finora bisognava andarci come dal sovrano per ottenere l’indulgenza, noi invece costruiremo il programma dal basso».
Ma Emiliano è così, da sempre. Anche da sindaco di Bari, quando spiazzò la felpata sinistra barese col suo mix di tante cose. «Tolleranza zero alla Rudolph Giuliani e tolleranza mille da porto delle tante etnie» scrisse Francesco Merlo un bel po’ di anni fa affrescando la Bari di Emiliano. Sindaco sceriffo, si decretò: erano gli anni del fermento degli amministratori meridionali dal polso fermo, uomini - tutto insieme – motore, benzina, cinghia di trasmissione e ovviamente timonieri di macchine amministrative spesso troppo incerottate. 
Che poi, a dirla tutta, ci sono quattro Emiliano. C’è Emiliano pre-politico e “populista a basso voltaggio” nell’approccio all’elettore; c’è Emiliano post-politico che abbatte tutti gli steccati nel nome di un ecumenismo che salda e rimescola sinistra, centro, destra; c’è Emiliano politico allo stato puro, che fa di calcolo e stringe intese con pezzi di ceto dirigente e portatori di voti. E c’è un quarto livello: Emiliano che fa l’alfiere della “purezza”, l’erede della sinistra incontaminata, il teorico della condivisione e della partecipazione che accusa di trasformismo, inciuci, lobbismo e leaderismo praticamente tutti. È la veste che hanno imparato a conoscere gli italiani, fuori dalla Puglia. Per esempio quando nel 2017 s’è candidato a segretario nazionale del Pd, sfidando alle primarie il detestato (sentimento reciproco) Matteo Renzi. Oppure quando, pochi mesi prima, aveva apparecchiato con Bersani, D’Alema, Speranza e Rossi la scissione, salvo poi sfilarsi all’ultimo minuto. Era il frangente in cui il governatore sognava “da grande”, e ambiva a Roma. Andò male, è rimasto in Puglia, ma da Bari ha continuato a sparare a palle incatenate contro un po’ tutti, con l’inconfessabile piacere di bombardare soprattutto i governi Pd a guida Renzi e Gentiloni, per tutelare sì la Puglia e i pugliesi, ma innanzitutto se stesso: i democratici perdevano appeal, palazzo Chigi crollava nel consenso, e Michele non voleva restare stritolato. L’addio (formale) al Pd, dopo la sentenza della Consulta che impedisce ai magistrati di avere una tessera di partito, è stato in fondo un sollievo: mani libere e nessun laccio a trattenerlo.

La candidatura. Anche per tutto questo s’è ostinato fino alla più strenua resistenza: doveva ricandidarsi, a costo di doverlo fare contro tutto e tutti, sbaragliando le diffidenze che pure serpeggiavano a Roma come in Puglia. Ha avuto ragione. Ha cementato i suoi, ha continuato a rastrellare a destra e a sinistra, in una spasmodica raccolta di figurine, da Simeone Di Cagno Abbrescia a Massimo Cassano, dal sindaco di “destra-destra” Pippi Mellone a pezzi sparsi di sottogoverno, ha pure recuperato per i capelli Nichi Vendola e i suoi evocando il pericolo dei sovranisti. Una specie di “re taumaturgo” (i sovrani francesi medievali che guarivano da terribili pestilenze con la sola imposizione delle mani) che ha sempre sbandierato un prodigioso potere di “guarigione politica” del prossimo, anche del più irriducibile post-fascista, in nome “del programma” o della sua leadership.
Non era facile vincere contro un centrodestra così corazzato e contro un candidato governatore così attrezzato, senza cinque stelle e senza renziani.

E la vittoria è tutta, per intero, di Emiliano. Niente coalizione, niente regìa di Roma, né clamoroso contributo dei partiti pugliesi. Provate a fermarlo ora, se ci riuscite.

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