Politiche, la viceministra Bellanova: «Per il Terzo polo il faro resta l'agenda Draghi»

Teresa Bellanova
Teresa Bellanova
di Paola ANCORA
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Giovedì 22 Settembre 2022, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 12:04

Teresa Bellanova, presidente di Italia Viva e candidata capolista al plurinominale del Senato con il Terzo polo. Siamo alla fine di una campagna elettorale non brillante. Cosa è mancato, cosa vi rimproverate?
«È stata una brutta campagna elettorale, è vero, aspra nei toni e priva di contenuti che invece, personalmente, ho cercato di valorizzare confrontandomi direttamente con i cittadini e con il mondo produttivo. Non dobbiamo dimenticare che questa sfida elettorale, del resto, è figlia della gravissima scelta di mandare a casa la figura più autorevole della scena politica italiana attuale: Mario Draghi».

A questo proposito, sono diverse le forze politiche che dicono di ispirarsi all’agenda Draghi e tuttavia non trovano, fra loro, un punto di incontro. Sono prevalsi gli egoismi sull’interesse del Paese?
«Italia Viva e Carlo Calenda un’intesa l’hanno trovata, mettendo insieme una lista che, mi auguro, diverrà un progetto politico strutturato dopo il 25 settembre.

Non si può parlare dell’agenda Draghi ma poi non assumere l’impegno di portarla a termine: se si afferma che si vuole smontare il Pnrr, significa che si intende azzerare il più grande lavoro svolto dall’attuale premier. Quando il Senato non accelera sul via libera alla riforma del fisco, quando non si ascolta il premier che sostiene che il Reddito di cittadinanza va rivisto perché così com’è aiuta il lavoro nero, allora non si può dire di stare, davvero, con Draghi. L’agenda Draghi appartiene a chi con coerenza sta portando avanti battaglie che non sempre garantiscono applausi».

Ci faccia un esempio.
«Siamo tutti d’accordo che il Mezzogiorno deve ripartire, ma non con i sussidi. Oggi al Sud è come se il Reddito di cittadinanza avesse sostituito gli assegni di invalidità che venivano riconosciuti a pioggia negli anni Sessanta. Uno sbaglio enorme. Il Mezzogiorno può ripartire soltanto valorizzando le sue punte di eccellenza. Altra cosa è dire che i fragili hanno bisogno del sostegno dello Stato, con risorse adeguate, efficaci strumenti di inclusione e, non ultimo, un protagonismo dei Comuni nel saper intercettare i diversi bisogni cui dare risposta. Il Reddito di cittadinanza non affronta né risolve le fragilità profonde».

Tuttavia in questa difficile fase economica, uno strumento come il Reddito, sebbene rimodulato, serve ancora.
«Serve uno strumento che sostenga le povertà, se necessario anche investendo maggiori risorse. Il punto è finalizzarle a sostenere le persone, non a creare consenso. Bisogna distinguere fra i fragili e gli occubabili, ai quali bisogna garantire opportunità e formazione perché non debbano rassegnarsi a questo grado zero, senza inseguire i propri desideri”. 

Chi avrà la forza politica di modificare il Reddito di cittadinanza?
«Personalmente spero si creino le condizioni perché il Parlamento ne discuta. Il Reddito di cittadinanza va rivisto radicalmente, distinguendo il sostegno alle povertà dalle politiche attive. Se si insegue il consenso facile, la politica fallisce».

Il segretario Pd, Letta, ha fatto pubblico mea culpa sul Jobs Act, pensato dall’allora Governo Renzi e che lei ha sempre sostenuto. Condivide quel mea culpa oppure no?
«Nel Jobs Act abbiamo inserito la norma che ha istituito l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro; abbiamo portato i congedi parentali da tre a sei anni e la fruibilità di quelli non retribuiti dagli otto ai 12 anni; previsto l’indennità di maternità anche per chi ha contratti di collaborazione; inserito la norma che vieta le dimissioni in bianco; allungato i periodi di riconoscimento dell’indennità di disoccupazione. E allora, si chiederà, cosa ha creato il precariato? Il problema è sempre il modello di sviluppo. Oggi si parla di salario minimo: bene, siamo d’accordo. Ma non per farne uno slogan né per indebolire la contrattazione. E poi va tenuta presente anche la sostenibilità d’impresa, altrimenti si rischia di alimentare solo il lavoro nero o la chiusura delle aziende».

Se al Sud il problema è il modello di sviluppo, quale avete in mente?
«Noi abbiamo voluto “Industria 4.0”, uno strumento formidabile che sta dando i suoi frutti. La Puglia ospita la più grande acciaieria d’Europa e a Cerignola non hanno lattine a sufficienza per inscatolare i pomodori pelati: ecco cosa avviene quando si dicono troppi no. No all’acciaio, no alle rinnovabili, no alla Tap, che per me resta una ferita che sanguina. Avremmo dovuto avere un rigassificatore a Brindisi e li abbiamo fatti scappare via».

Ora si discute nuovamente di compensazioni sulla Tap. Pensa sia un risultato raggiungibile?
«Quando un treno si perde, è difficile raggiungerlo. L’8 novembre del 2017 raggiungemmo un’intesa con Tap e Snam perché venissero riconosciuti 55 milioni di euro di investimenti. Al tavolo governativo sedeva anche il professore Laforgia, all’epoca a capo del Dipartimento per lo Sviluppo economico della Regione: si disse d’accordo su tutto ma non aveva il mandato per sottoscrivere alcun accordo. La linea da seguire era “Tap, né qui né altrove”. Chi mi accusava di essere al servizio delle lobbies ha regalato 55 milioni a Tap e Snam: ora li recuperino, se ne sono capaci. Ci si dimentica di queste cose, come temo ci sia dimenticati di xylella».

Cosa intende?
«Prima che io diventassi ministra, i 300 milioni erano già disponibili, ma fermi. Noi abbiamo costruito il Piano e fatto i decreti, ma parte di quelle risorse è ancora là, da utilizzare. Spero si faccia presto, perché xylella avanza mettendo ancora più a rischio l’olivicoltura pugliese».

Ha detto che spera che la lista Azione-Italia Viva dopo il voto si strutturi come un partito, sul territorio. Quanto la imbarazza dividere la strada con Massimo Cassano?
«Cassano è un candidato in lista, come lo sono io. Mi auguro che il partito che si strutturerà non debba avere bisogno di me o di Cassano, ma lasci spazio ai giovani, ad energie nuove. Lunedì prossimo, dopo il voto, cambierà il sistema politico italiano: non reggerà il centrodestra, che è diviso, e non reggerà il Pd. Mi auguro che il presidente della Repubblica nomini i ministri indicati dalla forza politica uscita vincitrice dalle urne, ma scelga la continuità incaricando Draghi come premier».

Non rischia di rivelarsi un boomerang insistere su Draghi, che ha più volte detto di non volere un bis?
«Anche Mattarella ha ripetuto più volte di non voler restare al Quirinale. Come in quel caso, di fronte a una situazione difficile per il Paese, credo che il presidente Draghi, con un sacrificio, non si tirerebbe indietro».

Con il Pd il confronto è chiuso?
«Personalmente ho sempre lavorato perché ci fossero le condizioni per un confronto a prescindere dalle asprezze dei rapporti personali. È il Pd che ha investito Conte del ruolo di massimo rappresentante della sinistra, quel Conte che ha firmato i decreti Sicurezza. Quello è il mio popolo, ma ai vertici sono stati decisi cambiamenti davvero incomprensibili. Quando Vendola si candidò alle Regionali e poi per un secondo mandato, D’Alema disse che c’era bisogno di una figura moderata per intercettare i voti del centro: Francesco Boccia. Perdemmo miseramente le primarie, due volte. Il Pd è stato rovinato da chi pensava che il partito non dovesse essere scalabile. La sinistra che ho conosciuto io era quella che voleva liberare le persone dal bisogno. Altrimenti si alimenta quel notabilato meridionale che ha bloccato lo sviluppo del territorio. Che ci fossero collegi in bilico sui quali lavorare Letta lo sapeva, ma ha scelto un’altra strada. Forse è inadeguato alla funzione che svolge».

Il centrodestra potrebbe portare la prima donna a Palazzo Chigi. Non è stata, per il Terzo Polo, un’occasione persa non scommettere su Mara Carfagna? 
«Giorgia Meloni può arrivare a svolgere una funzione di governo ma questo non farà fare mezzo passo avanti alle donne. Questo Paese ha bisogno che le donne sappiano riconoscersi reciprocamente, anche nelle funzioni che svolgono, smettendo di cercare la “copertura” di un uomo. Quello sarà il nostro passo avanti».

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