L'intervista/​Pellegrino e gli scossoni nella magistratura: «Nessuna superiorità morale, i giudici sono come tutti gli altri»

L'intervista/ Pellegrino e gli scossoni nella magistratura: «Nessuna superiorità morale, i giudici sono come tutti gli altri»
di Oronzo MARTUCCI
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Lunedì 1 Giugno 2020, 09:24 - Ultimo aggiornamento: 16:56
«Mi stupisce la sorpresa che gli italiani mostrano nel vedere che i magistrati si comportano come gli altri cittadini. Perché non dovrebbe essere così?»: l'avvocato Giovanni Pellegrino, senatore per quattro legislature, in carica dal 1990 al 2001, eletto la prima volta con il Pci, poi con il Pds, i Ds e L'Ulivo, e già presidente della Commissione bicamerale Stragi, è netto nel negare che i magistrati possano esprimere o rappresentare una qualsiasi superiorità morale o etica, come emerge dall'inchiesta che coinvolge Luca Palamara, già presidente dell'Associazione nazionale magistrati e componente del Consiglio superiore della magistratura, e dalle intercettazioni che riguardano il sistema di potere legato alle nomine e agli intrecci con la politica.
Senatore Pellegrino, perché i magistrati sono come gli altri?
«Sono parte del ceto dirigente del Paese, frequentano le stesse scuole e le stesse università di tutti gli altri, spesso prestano per tutta la durata del loro percorso professionale servizio nei luoghi di nascita o di prima nomina, e finiscono per avere le stesse relazioni sociali e frequentazioni degli altri componenti della classe dirigente. Come accade in tutte le professioni, ci sono magistrati che rimangono onesti e incorruttibili e magistrati che diventano corrotti e si fanno influenzare dalle relazioni sociali».
Non riconosce ai magistrati alcuna superiorità etica o morale.
«È un'illusione pericolosa immaginare che il ruolo possa far emergere una natura angelica. Né il concorso per l'accesso alla magistratura ordinaria può essere uno strumento per far emergere i migliori e i più onesti. Si tratta di un concorso che è certamente più difficile di quello che seleziona gli avvocati, ma meno difficile di quello che seleziona i notai, i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato o la diplomazia. Perché un magistrato dovrebbe essere più onesto di un notaio?».
Tra gli Ottanta e gli Anni Novanta si pensava ai magistrati come a persone integerrime e coraggiose.
«Ci fu effettivamente un periodo durante il quale alcuni magistrati non ebbero la timidezza del ceto dirigente e affrontarono con coraggio il terrorismo e la criminalità organizzata, arrivando a sacrificare la loro vita. Anche durante il periodo di Mani Pulite emerse l'immagine di una superiorità della magistratura rispetto al resto della classe dirigente. Ma bisogna fare alcune precisazioni».
A proposito di cosa?
«Proprio il presidente del Tribunale di Milano fu arrestato nel 1993 per aver intascato una tangente di 400mila franchi svizzeri collegata a Enimont. E lo stesso Antonio Di Pietro, bravissimo investigatore e uomo immagine della procura di Milano, frequentava il mondo di Mani Pulite e della cosiddetta Milano da bere che poi egli stesso mise sotto inchiesta».
Lei non salva nessuno.
«Rimane essenziale il ruolo della magistratura e non dei singoli magistrati. È necessario definire una riforma del Csm e delle funzioni giudiziarie alla quale si sono sempre opposte le varie magistrature, che sono fortemente conservatrici. I magistrati gridano sempre che la politica attenta alla loro indipendenza. Dopo l'introduzione del rito accusatorio nel processo penale, sarebbe stato necessario procedere con la separazione delle carriere tra pm e giudici. I magistrati non hanno mai voluto».
Perché?
«Con la carriera unificata gli sviluppi sono più facili. Se un pm non riesce a ottenere la direzione di un ufficio può sempre ricollocarsi come presidente di Tribunale».
Nella magistratura a carriera unificata resta comunque prevalente il ruolo dei pm.
«I pm hanno avuto il sopravvento perché svolgono una funzione che decide sulla libertà dell'indagato e non del colpevole. Magistratura democratica nacque come magistratura di libertà. Ma non sempre ha svolto questa funzione. Fu la lotta al terrorismo a provocare il salto culturale, quando si ritenne che prima di ogni altra cosa era importante la difesa dello Stato».
Quali riforme vanno introdotte per superare la attuale situazione?
Riforme ragionevoli e anche modeste: la separazione delle carriere; il cambiamento del sistema elettorale del Csm. Nel momento in cui la magistratura è organizzata per correnti, è normale ritrovarsi nella attuale situazione».
Anche la politica si mostra attenta alle carriere dei magistrati.
«Chi è stato in Parlamento e ha conosciuto un magistrato ha certamente ricevuto una telefonata o una segnalazione ai fini della carriera. Non era e non è scandaloso, ma è certamente sbagliato».
Il Parlamento avrà la forza di introdurre le necessarie riforme?
«Spero che la politica abbia la forza di appropriarsi del potere di introdurre riforme, eviti di dividersi a favore o contro i magistrati e operi a favore di poteri neutrali».
Possibilità di realizzazione delle riforme?
«La vedo dura. E ricordo come una mia sconfitta personale il naufragio della cosiddetta Commissione Bicamerale insediata nel 1997 e presieduta da Massimo D'Alema, della quale io facevo parte, che coinvolgeva direttamente anche Silvio Berlusconi».
Perché parla di sconfitta?
«Avevo convinto D'Alema sulla necessità di una riforma che prevedesse la costituzione nel Csm di due commissioni, una per i pm e l'altra per i giudici, e l'unificazione dei giudici della magistratura amministrativa (Tar e Consiglio di Stato) con quelli della Corte dei Conti. I magistrati contabili ci massacrarono. Poi la Bicamerale saltò, perché Berlusconi capì che con quelle riforme costituzionali avrebbero dato un potere immenso a D'Alema».
I suoi rapporti con D'Alema come sono stati?
«Buoni complessivamente. Nella primavera del 1993 ero presidente della Giunta per le autorizzazioni a procedere di Palazzo Madama e in quel luogo privilegiato lessi le carte relative alla richiesta di autorizzazione a procedere che il pm Titti Parenti del Pool Mani Pulite di Milano aveva firmato nei confronti del tesoriere dei Ds, Marcello Stefanini. Si trattava di un potenziale reato di frode fiscale per la cessione di un immobile, dalla quale Stefanini fu poi assolto, ma la Parenti voleva farlo entrare a tutti i costi in Mani Pulite. Andai alla Camera e spiegai a D'Alema cosa stava accadendo, sottolineando che i magistrati di Milano e anche di altre procure stavamo agendo a cerchi concentrici, che prima o poi avrebbero preso di mira i Ds e non si sarebbero fermati ai vertici di Dc, Psi e degli altri partiti di governo».
Quale fu la risposta di D'Alema?
«Non preoccuparti. C'è Luciano che ci pensa».
A chi si riferiva?
«A Luciano Violante».
Ora Violante fa professione di garantismo.
«Diciamo che ha avuto una evoluzione. Nel suo ultimo libro, che mi ha mandato in omaggio, sostiene che i magistrati devono essere i guardiani del trono, ma senza mai salirci. Gli ho risposto, per ringraziarlo, di essere contento del fatto che le nostre posizioni si fossero avvicinate. Ma torniamo a D'Alema. Nell'estate del 1993, pochi mesi dopo l'incontro avvenuto alla Camera, D'Alema venne a Lecce per partecipare alla Festa dell'Unità e il segretario provinciale dei Ds, Rotundo, mi fece sapere che il leader voleva una cena a tre: io, D'Alema e lo stesso Rotundo».
Cosa accadde durante la cena?
«D'Alema mi chiese di spiegargli esattamente il discorso di tre mesi prima. Parlai per di mezzora e si convinse che avevo ragione in gran parte. Ma disse anche che non poteva esporsi perché il segretario del partito, Occhetto, lo avrebbe massacrato. Ma mi spiegò che mi avrebbe coperto le spalle se mi fossi esposto. E posso dire di aver trovato il sostegno lungo questo percorso anche del collega senatore Cesare Salvi. Spesso ho rischiato di essere espulso dal partito per le mie posizioni garantiste».
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