La magia dei misteri di Puglia

La processione
La processione
di Anita PRETI
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Giovedì 14 Aprile 2022, 11:00 - Ultimo aggiornamento: 15 Aprile, 09:23

Il dolore e la felicità sono due termini contrapposti. Ma c'è un luogo e anche un'ora o più di una in cui gli opposti si incontrano. Ed è durante la Settimana Santa, durante i suoi Riti, che tornano in tutta la Puglia dopo due anni di assenza per pandemia.

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Da Taranto al Salento, ognuno ha le sue tradizioni

I Riti possono essere grandiosi, scenografici e addirittura coreografici nel loro incedere dondolante a mo' di danza come quelli di Taranto, e non solo Taranto, oppure semplici, elementari quasi spogli come quelli di un qualsiasi riposto paesino della lunga Puglia e dell'altrettanto lungo Salento. Ma gli uni e gli altri, in ricchezza o povertà, sono fondamentalmente umili. Perché solo con l'umiltà (del cuore, del pensiero, dell'azione) si arriva a compiere quel cammino di dolore e penitenza che ha per meta la Pasqua di Resurrezione. Cioè la gioia. Questo avviene da secoli e secoli, questo torna ad avverarsi cominciando da oggi.

I sepolcri

I Sepolcri, Sabburchi è il loro nome nel Salento, da onorare chiesa dopo chiesa, la grande Passio Christi di Ginosa che si anima per prima, i Canti di Passione itineranti tra la Grecìa Salentina e Lecce e poi le processioni, il momento più atteso: Taranto con le perdùne, i confratelli incappucciati; Grottaglie con i Bubbli Bubbli; Francavilla Fontana con i Pappamusci; Gallipoli con l'Urnia e la Desolata; Molfetta con la Pietà; Ruvo di Puglia e gli Otto Santi.
Talora persino avversati non solo in quanto fuori tempo massimo rispetto al secolo della velocità e soprattutto perché non sono pochi coloro che li ritengono troppo teatrali per essere veri, i Riti di rappresentazione della Passione di Cristo, ovunque si svolgano nei luoghi citati e in decine e decine di altri non elencati, sono invece un tale esercizio di modestia che si stenta a crederlo e sul quale per primi, coloro che li avversano, dovrebbero riflettere.

O farsi delle domande senza il punto interrogativo.

Cosa spinge un uomo a camminare per ore e ore, una notte intera se non due il Giovedì Santo e, di Venerdì, scalzo come accade a Taranto trascinando i piedi su quell'asfalto delle strade che per quanto all'uopo pulito non potrà mai essere un tappeto; e cosa lo spinge, nell'era dell'estrema visibilità, a nascondere il volto sotto un cappuccio come in quasi tutte le processioni avviene, il corpo infagottato in un saio, poco più che un lenzuolo, che può essere bianco, rosso, nero, con le spalle appena coperte da una mozzetta bianca, nera, gialla, rossa, celeste secondo il dettato della Confraternita di appartenenza. Cosa, nei giorni del fracasso più sfrenato, da una marmitta lanciata su strada agli insostenibili decibel di certa musica, cosa lo induce ad un lungo silenzio interrotto solo dal lacrimevole e straziante suono delle marce funebri intonate dalle bande musicali che accompagnano il percorso; cosa gli rende sopportabile il crepitio delle maniglie sul legno di quello strumento (a Taranto è denominato troccola, lo stesso ha altri nomi negli altri paesi) che apre e regola l'incedere della processione o come avviene altrove gli acuti squilli delle trombe, il rullio dei tamburi, il battere di una grancassa. Cosa dunque induce a questo, e non è il protagonismo dei singoli, e non l'ancestrale folklore della comunità, cosa altro non è se non l'umiltà. Quindi la capacità di spogliarsi di tutto, di rinunciare a molto nelle ore del cammino, di farsi nella preghiera servo quasi ad addossarsi il dolore del mondo (e quale e quanto sia in questo momento è ben noto), di toccare il fondo dell'umiliazione e del dolore.

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I riti del pentimento

Questi sono gli addendi della somma del pentimento. E dopo di che, dopo quel pentimento, atteso, invocato, cercato, praticato, subentra il perdono. Che si può invocare e ricevere, che si deve offrire e dare. Certo è arte difficilissima quella del perdono, anch'essa incarnazione dell'umiltà. Non a caso, sempre a Taranto, gli uomini delle processioni della Settimana Santa, perdono la loro identità e vengono detti soltanto perdùne, perdoni. Ma già, a Taranto e altrove, perché questi Riti sono la preparazione alla Pasqua di tutto il territorio: dall'Ofanto a Leuca, dal confine con il Molise al confine con il mare, già solo appellarli confratelli è illuminante.
Perché un confratello non è solo l'uomo di una confraternita, ma è colui che sceglie un altro uomo (e per il cattolicesimo in ogni uomo c'è il Cristo) per compiere insieme il cammino della vita. Che duri poi una sola notte è ininfluente. Basta averlo fatto una volta anzi basterebbe solo averlo pensato. Allora l'odio sarebbe impossibile: sia nella sua forma massima che è la guerra, sia nelle sue forme minime, le minutaglie di ogni giorno: il disprezzo, l'invidia, l'intolleranza.

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E quale difficile cammino si spiana non dinanzi ai piedi dei confratelli nelle ore del Giovedì e del Venerdì, santificati dall'attesa della Pasqua, bensì dinanzi agli occhi di chi guarda l'incedere di quei passi. Nella loro velocità umiliata, come tanti e tanti anni fa è stato definito il cammino di una processione, i confratelli concedono agli astanti la possibilità e il tempo per riflettere e per interrogarsi sulla propria capacità di umiliarsi, di pentirsi, di chiedere perdono, di perdonare. Poi, se gli occhi non sono velati di lacrime per la commozione di quel che vede e per la pena che invece nasconde, alzando lo sguardo di quegli occhi verso le statue, portate sulle spalle con tanto sacrificio, incrociando il volto della Desolata, dell'Addolorata di Gallipoli, di Molfetta, di Taranto, costruite dai grandi maestri artigiani, ciascuno avrà modo di riflettere anche sulla bellezza e sulla potenza dell'arte.


E se fosse vero che la bellezza salverà il mondo, come affermava nell'Ottocento uno scrittore nato a Mosca, russo dunque, Fedor Dostoevskij? Il tempo per questa azione forse non è ancora venuto. Ma per il cammino di queste notti in arrivo e dei giorni che verranno basta, bastava, basterà solo un po' d'amore.
 

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