Messina Denaro arrestato, parla il fratello di Dicillo morto nella scorta di Falcone: «Ora, la verità sulle stragi»

Messina Denaro arrestato, parla il fratello di Dicillo morto nella scorta di Falcone: «Ora, la verità sulle stragi»
di Roberta GRASSI
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Mercoledì 18 Gennaio 2023, 05:00

«Per me, anche se molti gridano alla vittoria, non si tratta di un risultato positivo. Matteo Messina Denaro è stato assicurato alla giustizia dopo 30 anni, adesso che facciamo? Ci vediamo tra altri 30 anni?». A parlare è Michele Dicillo, il fratello di Rocco, uno dei componenti della scorta del giudice Giovanni Falcone che morì nella strage di Capaci, il 23 maggio 1992.

Dicillo, originario di Triggiano, aveva 30 anni, era un poliziotto e viaggiava sul sedile posteriore di una delle tre auto blindate, una Fiat Croma marrone, che riaccompagnavano il magistrato (a bordo della Croma bianca, mentre l’ultima auto blindata era una Fiat Croma azzurra) appena atterrato a Punta Raisi da Roma a Palermo.

L’auto era guidata da Vito Schifani, al cui fianco sedeva Antonio Montinaro, anche lui pugliese, di Calimera. Michele, suo fratello, oggi è un medico. Ha appreso la notizia dell’arresto del super latitante Matteo Messina Denaro dai telegiornali.

«Ci sono storture»

«In questi trent’anni, noi famigliari delle vittime abbiamo maturato una certa esperienza. Altri mafiosi sono stati arrestati. Purtroppo però, la gestione dei mafiosi non è sempre stata positiva, lineare. Ci sono complicazioni, storture del sistema giudiziario che ci lasciano molto perplessi. Questo è successo in passato, ora vedremo che cosa sarà disposto a dire, come la giustizia intende gestire questa persona». Una persona che Michele non nomina mai. A pesare, a tormentare ancora gli affetti più cari di chi non c’è più e scomparve, in un momento, per mano altrui, è la ricerca di una verità che sembrerebbe essere ancora incompleta. Assieme al dolore per un sacrificio che si metteva in conto, ma mai fino al punto da credere che potesse accadere davvero.

Rocco come Antonio Montinaro era un servitore dello Stato. Non era il bersaglio scelto, ma la sua esistenza, quella di un giovane agente che amava la sua donna e stava per sposarsi, fu mandata in frantumi. «Noi vogliamo sapere la verità, perché non risulta tutto chiaro il quadro della strage di Capaci. E neppure di via D’Amelio. Non lo dico io - va avanti Michele Dicillo - ma gli stessi giudici, del resto è da 30 anni che partecipiamo ai processi. Siamo arrivati al Capaci ter, proprio perché non si conosce davvero tutta la verità. Per noi è la cosa più importante: non si può accettare l’idea che la strage di Capaci, come altre, siano il frutto o opera di quei criminali che conosciamo. Sono soltanto esecutori».

I dubbi

Non nasconde, Dicillo, i propri dubbi. Su una cattura giunta «alla fine della carriera» del boss. Preannunciata da altri in qualche contributo televisivo di cui si sta facendo gran parlare sui social: «Vedo che la gran parte della gente, sul web - afferma - la pensa come me». Colpisce che Messina Denaro fosse a casa, in Sicilia, proprio lì: «Lo si cercava altrove, in tutto il mondo, e invece era a Palermo. Mi sembra un fallimento dello Stato, più che una vittoria. È un risultato, certamente. Ma trent’anni sono un’eternità. Dal punto di vista della memoria storica è una notizia fondamentale. Ma noi, adesso ai ragazzi delle scuole cosa andiamo a dire? Sui libri di storia cosa andiamo a scrivere? Andiamo a scrivere che la strage di Capaci fu opera di Brusca e Riina, quattro mafiosi siciliani? Mi sembra una verità storica poco credibile, non completa». L’esigenza intima, è quella di una riflessione più profonda: «Di cosa esultiamo? Sapere che chi ha materialmente o indirettamente ammazzato tuo fratello è stato arrestato dopo trent’anni? Trent’anni sono una vita, non so cosa ci sia da essere contenti. È chiaro che è meglio che sia stato catturato dopo trent’anni, che mai. Ma è un discorso fallace». Resta da attendere, per comprendere quali saranno le decisioni del superboss. E se abbia o meno intenzione di parlare.

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