La vittoria al Mundial di 40 anni fa: per l'Italia un'emozione senza fine

La vittoria al Mundial di 40 anni fa: per l'Italia un'emozione senza fine
di Vincenzo MARUCCIO
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Domenica 10 Luglio 2022, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 17 Febbraio, 21:47

Zoff, Gentile, Cabrini. MundialMundial, basta la parola: la palla gonfia la rete e l’Italia si veste di tricolore. Quarant’anni dopo e noi, qui, ancora a chiederci qual è il segreto. A cercare la spiegazione di quella magia mai più rivissuta così intensamente. La rinascita di un Paese, dicono tutti, e non c’è da dargli torto. Il trionfo ai Mondiali segna una cesura con il periodo più doloroso della vita repubblicana: la crisi economica del decennio precedente, gli Anni di piombo con i morti per strada, le bombe sui treni e alle stazioni, il caso Aldo Moro con le sue profonde cicatrici, i misteri di uno Stato con troppe ombre. L’impresa di Spagna non spazza via soltanto la pagina nera dello scandalo scommesse che aveva travolto il nostro calcio, ma fa molto di più: chiude le tante, troppe ferite del corpo malato in cerca di una via di guarigione. 


Le notti - di là, prima a Vigo, poi a Barcellona e infine a Madrid nella finale contro la Germania - si tingono di azzurro e qualcosa di inaspettato accade: un pallone, semplicemente un pallone, ci riporta uniti nelle piazze e il Paese riconquista un orizzonte. È l’addio ai fantasmi del passato e agli incubi di recessione e sangue: c’è, finalmente, un futuro dietro l’angolo. Se roseo come sembra lo diranno, poi, gli storici. Zoff alza la Coppa al cielo e gli anni Ottanta cominciano quell’11 luglio. La chiamano rinascita, ma forse è troppo poco come spiegazione. C’è dell’altro. Ci deve essere sicuramente dell’altro.
Oriali, Collovati, Scirea. La squadra prende forma, difende e si distende in avanti. Fu una vittoria contro tutto e contro tutti: così si legge negli annali. Messi al muro dai giornalisti dopo un pessimo primo turno in cui si era rischiata l’eliminazione e diventati bersaglio di cattiverie mai viste prima, i ragazzi di Bearzot si rinchiudono nel silenzio stampa e moltiplicano la sete di rivincita: lo spirito di gruppo già ben cementato si consolida senza lasciare spazio a rivalità, vendette o spaccature interne. «Eravamo amici e sapevamo che avremmo perso o vinto insieme»: è il messaggio più volte ricordato in questo anniversario. È il messaggio sottinteso in quei giorni di roventi polemiche, ma quando battiamo a sorpresa l’Argentina di Maradona si capisce che c’è qualcosa di speciale: gruppo compatto, niente primedonne, obiettivi condivisi, spirito di sacrificio. È il piccolo esercito che non abbiamo mai avuto. È il superamento dei campanilismi che ci hanno frenato sin dai tempi di Granducati, Principati e Signorie: le provenienze da Juve, Inter o Roma, stavolta, non creano divisioni. 
Gli italiani capiscono e, abbandonato l’iniziale scetticismo, ci mettono poco a sposare il sentimento di popolo che gli Azzurri trasmettono. È il completamento di un Risorgimento rimasto incompiuto. È lo spirito patriottico che né la Prima Guerra Mondiale né l’epopea della Liberazione erano mai riuscite a restituire all’intera popolazione. Gli Azzurri, invece, ci riescono. A dispetto di chi sottovaluta gli effetti degli eventi sportivi, capaci di fare la storia sin dai tempi delle Olimpiadi nell’antica Grecia. 
L’azzardo non sembri eccessivo: prima ancora che una rinascita, il trionfo dell’82 è la nascita di un Paese. C’erano già le autostrade, certo. E c’erano gli ospedali, la scuola dell’obbligo, le vacanze a Ferragosto, lo shopping a Natale e i saldi a inizio estate, ma tante bandiere a suggellare lo stare insieme non si erano mai viste. A dare forma, sia pure in un contesto sportivo, al senso di Patria. 
Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni, Graziani. Comandiamo noi e i gol arrivano bellissimi. Su azione, non certo alla lotteria dei rigori. È difficile spiegare a chi non c’era che i veri brasiliani eravamo noi: la resurrezione di Pablito, il 3-2 batticuore, la parata di Zoff all’ultimo minuto, le lacrime verdeoro e lo sventolìo biancorossoeverde. Emozioni altalenanti e improvvise: quanto più irripetibili, tanto più impossibili da descrivere. Il rischio è di non riuscire a restituirne per intero la magia: o c’eri o è difficile spiegare. Il Mundial 82 è molto più di una moda, di un fenomeno passeggero o di un personaggio. Bellissime le vittorie di Pantani, i trionfi delle Rosse di Schumacher, i record di Valentino Rossi, le imprese della Pellegrini, i lampi di Jacobs e Berrettini: provate a raccontarli - filmati youtube alla mano - e non sarà difficile accorciare le distanze con chi vede e ascolta per la prima volta: la sensazione di abbattere le barriere temporali è ben percepibile.
Con il Mundial non funziona: chi ne racconta le gesta e attribuisce significati particolari ha spesso la sensazione di non essere compreso appieno; chi sta dall’altra parte e ascolta ha l’impressione che metafore e iperboli siano esagerate. E non è questione di una sola generazione perché quella fu una vittoria di nonni, padri (e madri) e figli: di chi ricordava vagamente le Coppe fasciste, di chi più volte aveva mancato il bersaglio e di chi, tra i 6 e i 12 anni, lo aveva centrato al primo colpo. Quelli venuti dopo, no: avrebbero letto, visto e rivisto, ma la distanza emozionale, anche per il più attento degli appassionati, sarebbe rimasta incolmabile. Una magia così unica da conservare, per sempre, qualcosa di inspiegabile. Perfino a chi l’aveva vissuta. Figurarsi agli altri.
Zoff, Gentile, Cabrini, Bergomi, Oriali, Collovati, Scirea, Conti, Tardelli, Rossi, Graziani. Finale senza Antognoni: è infortunato. Graziani si farà male in pochi minuti e Altobelli entrerà al suo posto. In panchina la pipa di Bearzot, in tribuna d’onore la pipa di Pertini. Un rigore clamorosamente sbagliato non cambia il destino, è solo questione di tempo: Pablito è rapido, sfuggente e implacabile anche contro i tedeschi dell’Ovest e apre la strada della vittoria. Le televisioni a colori - ormai in tutte le case degli italiani - sono il piccolo cinema casalingo soprattutto per i ragazzini: primi piani, replay, la voce di Martellini e colpi di tacco destinati a restare nella memoria. Danza, musica e poesia le giocate dei nostri eroi: come le terzine dantesche studiate alle Superiori, meglio degli endecasillabi di Leopardi, rapsodie libere come certi dribbling sulla fascia destra. Paolorossi era il nostro eroe e tanto ci bastava: Omero gli avrebbe dedicato un altro poema se lo avesse visto giocare. Non immortale come gli Dei, ma certamente invincibile se c’era da vincere il Mundial. Fragile come Achille, ma imbattibile sul campo. Paolorossi un ragazzo come noi, come avrebbe cantato qualcuno alcuni anni dopo. Come avremmo voluto essere, per sempre.
Le immagini sono indelebili come per le gite al mare con mamma e papà, come per le domeniche in motorino, come per il primo bacio.

Spensierati e leggeri, ma il segreto resta imprendibile e forse è meglio così. Il Mundial è la nostra Madeleine proustiana e il ricordo è un urlo che riaffiora all’improvviso quando meno te l’aspetti. Se la felicità è un attimo si può rivivere, ma non spiegare del tutto. Il computer si spegne e le parole si arrendono alla telecronaca più bella. Contrattacco di Scirea, Conti, subentra Rossi, Scirea, Bergomi, Scirea, Tardelli, gol, Tardelli ha raddoppiato, uno splendido gol. Siamo Campioni del mondo.

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