Salvi: «Processi migliori? Servono maggiori risorse»

Salvi: «Processi migliori? Servono maggiori risorse»
di Roberta GRASSI
6 Minuti di Lettura
Martedì 1 Novembre 2022, 09:00 - Ultimo aggiornamento: 18 Febbraio, 02:17

Il tema è centrale. Non è un caso che il primo atto del governo Meloni riguardi la giustizia. Il rinvio della riforma Cartabia, dopo le proteste periferiche. E il “nodo” collaborazione, legato ai benefici sulle pene per i condannati. Si discute anche di ordinamento, di separazione delle carriere. Di bonus e mafia. Della necessità che i processi fluiscano rapidamente, per rispettare le richieste dell’Europa e non perdere i fondi Pnrr. Tanto dibattito, su cui il procuratore generale presso la Corte di Cassazione Giovanni Salvi, da poco ex, in Salento per presentare l’ultimo libro di Andrea Apollonio “I pascoli di carta”, non può che offrire un punto di vista privilegiato. 
Procuratore, primo Consiglio dei ministri e subito si affronta il tema giustizia. 
«In trattazione ci sono due punti importanti. Il primo è l’adempimento dell’impegno imposto dalla Corte costituzionale per la riorganizzazione della normativa in materia di ergastolo ostativo. Il decreto, mi sembra dalle anticipazioni, rispetta le indicazioni della Corte costituzionale, che ha ben chiarito che nei reati di mafia o terrorismo deve essere dimostrata la recisione del legame con le organizzazioni di appartenenza. Il secondo aspetto, quello relativo al rinvio di alcune parti della riforma del processo, credo sia indispensabile, perché vi sono una serie di adempimenti molto impegnativi per i procuratori della Repubblica, i giudici per le indagini preliminari e i procuratori generali. E non vi sono ancora tutte le misure organizzative necessarie». 
Lei ha svolto quasi sempre funzioni requirenti. Dal punto di vista del “pubblico ministero”, pensa che la collaborazione sia un passaggio necessario per ritenere compiuto un percorso di riabilitazione, di reinserimento sociale?
«Sicuramente è uno degli elementi fondamentali per testare se ci sia stata o meno una effettiva maturazione. Credo che questo valga anche per la giustizia riparativa: ammettere la propria responsabilità, riconoscerla, sia di fronte alla vittima che alla collettività, è il primo fondamentale passaggio». 
Nutre anche lei perplessità sulla struttura complessiva della “Cartabia” in ambito penale? 
«La riforma è enormemente complessa. Ci sono alcuni aspetti molto ben strutturati, come le misure per la Cassazione o l’Appello. Per le indagini preliminari, a mio parere, vi sono dei problemi sia organizzativi, che sono quelli su cui hanno puntato i 26 procuratori generali nel chiedere il rinvio, che strutturali: c’è una moltiplicazione dei casi di procedure incidentali che rendono molto complicato il procedimento». 
Sembrerebbe quasi che si voglia perseguire a tutti i costi un obiettivo di efficienza e rapidità a scapito della qualità dei provvedimenti giudiziari. 
«L’obiettivo della riforma Cartabia, come tale assolutamente condivisibile, è quello di unire una maggiore efficienza a una migliore qualità della giustizia. Il rischio però è che la complessità delle nuove procedure finisca per rendere assai difficile il lavoro del giudice. In compenso vi è ormai la consapevolezza che la qualità passa attraverso gli investimenti sulle risorse. E da questo punto di vista finalmente vi è un grosso sforzo: un esempio è il reclutamento di personale amministrativo, ma anche dei magistrati». 
C’è stato però un problema sui concorsi. Gli ultimi banditi, sono stati superati da un numero di magistrati inferiore ai posti disponibili. Come è possibile? C’è un deficit sulla formazione universitaria? O forse le prove sono troppo complicate?
«Non è facile capirlo. C’è chi ha sostenuto che il livello complessivo degli elaborati fosse talmente basso da non consentire neppure con un approccio benevolo di superare il concorso. Certamente ha pesato il farraginoso meccanismo del vecchio concorso, al quale si poteva accedere solo dopo molti anni. Ora questo è cambiato e spero che le nuove norme, che consentono un acceso più rapido, portino al risultato di avere bravi magistrati e nel numero necessario». 
Ne mancano 1.600. Si è parlato di allungare l’età pensionabile, lei stesso è stato al centro di qualche polemica. 
«Se non si riesce ad assumere un numero di magistrati sufficiente a coprire gli organici queste scelta si riproporrà. E io non sono più un ostacolo». 
La magistratura potrebbe essere considerata uno di quei settori, come accade nella sanità, in cui l’esperienza pesa tanto quanto l’entusiasmo delle nuove leve? 
«L’età anagrafica non corrisponde più a quella di molti anni fa. Sono scelte che hanno sia conseguenze positive che negative, anche tra gli stessi magistrati. In passato sono state operate anche in relazione a casi specifici e a vicende personali, cosa grave perché rischia di appannare l’indipendenza della magistratura.  Vedremo».
Dopo la bufera Palamara e tanto confronto interno, adesso c’è un nuovo Csm. Cosa pensa del sistema delle correnti?
«Le aggregazioni di magistrati secondo orientamenti culturali sono una grande ricchezza. Si pensi al ruolo che l’associazionismo ha svolto nell’affermazione dei valori costituzionali, ad esempio nel riconoscere nel giudice un custode dei diritti. Questo ruolo è riconosciuto anche dalle fonti europee. Sarebbe un peccato se gli episodi gravissimi che si sono verificati, la svendita dell’associazionismo a una sorta di mercato per il conferimento degli incarichi, ne compromettessero definitivamente il loro valore».
Il neoministro Carlo Nordio, ex magistrato, ha subito parlato di separazione delle carriere. È favorevole?
«Sono sempre stato contrario. Sono anche contrario alla previsione di una così ampia divisione delle funzioni. Lo considero preoccupante. Ma questa ormai è diventata una sorta di battaglia ideologica, dove è difficile far ascoltare le proprie ragioni. Credo che la possibilità di fare esperienze diverse in una carriera lunga quarant’anni sia una ricchezza per i cittadini. Al contrario, non mi sembra utile per la collettività che un pubblico ministero debba restare tale per tutta la sua vita, per obbligo e non per scelta. L’aver dovuto giudicare, all’inizio della mia professione, da pretore, mi ha dato un carico di responsabilità che non ho mai dimenticato. È importante vivere sulla propria pelle il peso di dover decidere».
Alla funzione giudicante, però, non è mai più tornato. 
«No, perché la vita poi fa i suoi percorsi. Ho sempre avuto la passione per l’investigazione e per l’organizzazione degli uffici a cui ho dedicato molto tempo. Forse in un’altra vita avrei fatto con altrettante passione il giudice». 
Si è occupato di procedimenti che hanno fatto la storia recente del nostro Paese. Se dovesse individuare un’inchiesta o un processo a cui è rimasto maggiormente legato, quale sceglierebbe?
«Difficile dirlo. Certamente sono stati coinvolgenti i processi sui rapporti tra le organizzazioni terroristiche romane e le organizzazioni mafiose: da Pecorelli a Calvi. Le Brigate Rosse. Quello forse più impegnativo, dal punto di vista internazionale, è il processo sull’attentato a Bernardo Leighton a Roma che ha portato alla scoperta di una serie di terribili attentati fatti dai servizi segreti cileni in giro per il mondo. Ma devo dire che altrettanto importanti sono stati i tanti processi ordinari, se vogliamo usare questo termine, in cui mi è sembrato di cogliere più immediatamente il senso del mio lavoro. Non ho dimenticato questa lezione quando si è trattato di organizzare un ufficio e stabilirne le priorità».
Quarant’anni all’accusa, quarant’anni a combattere il crimine organizzato. L’ha visto mutare, cambiare forma e modalità di azione. Come si è trasformato nel tempo? 
«La criminalità organizzata di tipo mafioso non è cambiata in modo omogeneo. È opportunistica per natura. Essa sfrutta ogni occasione di guadagnare, anche sugli enormi flussi di denaro pubblico del piano di ripresa. Non dimentichiamo però che l’inabissamento dei tempi contemporanei è la conseguenza della lotta al crimine che è stata condotta negli ultimi anni. È stata determinante l’azione di contrasto. Tutte le prime file delle organizzazioni criminali sono arrestate e sono al 41bis. Abbiamo vinto delle battaglie fondamentali e lo dobbiamo riconoscere. È da questo punto che bisogna partire, altrimenti la mafia appare invincibile. E non lo è».
© RIPRODUZIONE RISERVATA

© RIPRODUZIONE RISERVATA