L'analisi/L'ex Ilva e i danni della politica senza più coerenza

L'analisi/L'ex Ilva e i danni della politica senza più coerenza
di Francesco G. GIOFFREDI
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Mercoledì 6 Novembre 2019, 12:09 - Ultimo aggiornamento: 13:17

La lacerante vicenda dell'ex Ilva racconta molte cose del Paese, spesso contraddittorie. Ma soprattutto rappresenta l'unità di misura della bancarotta culturale e sociale in cui è da tempo intrappolata la politica italiana. Tutta, nessuno escluso.
Il farsesco balletto degli ultimi due anni sulla trattativa con ArcelorMittal e sull'immunità penale da garantire o meno alla multinazionale è solo la punta dell'iceberg, l'anello finale di una catena lunga decenni fatta di omissioni, fughe dalle responsabilità, facili populismi, non-decisioni, brucianti infatuazioni per le scelte di corto respiro più che per le visioni lunghe. Una catena che ha finito per strozzare tutti: gli operai e i tarantini, il lavoro e l'ambiente, Taranto e un polo produttivo che foraggia d'acciaio tutta l'industria metalmeccanica italiana.

Gli ultimi, convulsi eventi sono una specie di bignami dell'incoerenza: la politica che dice e contraddice se stessa, in poche settimane o persino in una manciata di giorni. Lanciando messaggi esiziali, ben oltre il caos ex Ilva: si può condividere o meno lo scudo penale a tutela di Mittal (peraltro limitato all'applicazione del Piano ambientale), ma introdurre ed estromettere l'immunità per ben quattro volte - e non è da escludere una quinta - in un anno, vuol dire trattare le regole come la biglia di un flipper, cestinare la certezza di contratti e diritto e così atterrire qualsiasi potenziale investitore. La sceneggiatura di queste settimane è a dir poco surreale. I cinque stelle, tanto per cominciare: fieri sostenitori della chiusura dell'Ilva in campagna elettorale, o almeno fino a quando Luigi Di Maio (da titolare del Mise) non ha sottoscritto il contratto di affitto e cessione degli asset produttivi a Mittal, di fatto riproponendo lo schema apparecchiato dal predecessore Carlo Calenda. Nel mezzo, l'ormai immancabile altalena di tira-e-molla. Proprio com'è successo sul nodo immunità: i pentastellati (con i leghisti) dapprima l'hanno depennata, poi l'hanno reintrodotta e infine l'hanno definitivamente azzoppata, stavolta col concorso di Pd, Italia viva e Leu. Ma grande è la confusione sotto il cielo pentastellato, tra ministri che difendono la continuità produttiva e una parte dei parlamentari che trama per chiudere lo stabilimento (la capofila è l'ex ministra Barbara Lezzi, prima firmataria dello spazza-scudo).

Per certi versi ancora più spiazzante è la traiettoria ondivaga di Pd e Italia viva: sin dal governo Renzi, il centrosinistra ha difeso con le unghie il polo jonico, dissodando il terreno per il futuro acquirente e introducendo l'immunità; ma è bastato l'abbraccio con il M5s per scatenare il cortocircuito, lasciarsi ipnotizzare e accodarsi a Lezzi e co. Così passando la spugna su anni di posizioni nette, e opposte. Un capolavoro al contrario, e in queste ore fa quasi sorridere la precipitosa corsa agli appelli, alle soluzioni e al nuovo scudo da parte di democratici e renziani. C'è persino chi, da ministra, invoca l'intervento del governo - di cui, va da sè, fa essa stessa parte: una specie di aporia logica.

È stato così anche per la Lega, che s'erge a difensore della "Italia che produce", ma che ha gestito con la stessa leggerezza dei cinque stelle il dossier Ilva quand'era al governo. Né è esente da bacchettate la restante parte del centrodestra, aggrappato - come tutti - solo allo stanco rito dei comunicati stampa: da chi è all'opposizione, tanto a Roma quanto a Bari, sarebbe lecito aspettarsi un approccio più energico. O per esempio un presidio concreto e diretto dei luoghi tarantini in cui pulsano forte le contraddizioni. Una pratica che la politica ha del resto abbandonato da anni. Discorso a sé è la Regione di Michele Emiliano, che ha contestato e impugnato tutto ciò che poteva e forse non poteva, oscillando tra spegnimento degli impianti, cordata alternativa, decarbonizzazione, dialogo e guerra.

Immunità o no, la politica in questi mesi ha derogato quasi del tutto a un compito cardine: incalzare Mittal sull'applicazione effettiva del Piano ambientale e industriale, senza lasciare alla multinazionale alibi per sbattere la porta e senza cambiare le carte in tavola (non solo sull'immunità), ma viceversa inchiodando Mittal quotidianamente ai doveri contrattuali. Invece governi, amministrazioni locali e partiti hanno preferito girare al largo, come spesso capita quando di mezzo c'è un dossier incandescente e divisivo. Può anche darsi, o è persino molto probabile, che lo stop allo scudo penale non sia la causa, ma il pretesto per l'addio da parte di Mittal. E però, proprio per questo, l'alibi di ferro non doveva essere servito su un piatto d'argento: adesso il governo rischia d'essere in una posizione contrattualmente debole. Lo scenario che si profila è cupo: la multinazionale va via, lo Stato dovrà trovare risorse per un polo produttivo che perde 2,5 milioni di euro al giorno, e alla fine calerebbe definitivamente il sipario non solo sul rilancio produttivo, ma anche sull'ambientalizzazione. Un'ex Ilva abbandonata e in lento spegnimento è una bomba ecologica, la disfatta economica è misurata invece da Svimez (-3,5 miliardi l'impatto sul Pil in caso di chiusura). Sono i guasti di una classe dirigente liquida, inerme, che su Ilva ha sempre preferito "scegliere di non scegliere", che non riesce a mettere a fattore comune la sfida tarantina della produzione e della salute, e che non sa più cosa sia tracciare una politica industriale (e ambientale) con mano ferma e rigorosa.

E ora? Nel teatro politico dell'improbabile che diventa possibile, ritornano alla ribalta opzioni oggi ripescate anche da chi ieri le aveva respinte: la nazionalizzazione dell'ex Ilva, un ritorno dell'altra cordata (che non esiste più), lo stop agli impianti, un altro decretone.

Avanti il prossimo, a mo' di lotteria, senza visione. Il buio pesto avvolge la siderurgia italiana, lo stabilimento tarantino e un'intera città. Tutti in attesa di risposte, stanchi delle troppe, timide danze del consenso in cui s'è spesa la politica.

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