È un prestito chiesto alla storia, perlomeno a quella pugliese. Perché la politica sa essere molte cose insieme: beffarda e risarcitoria, luogo di ritorni, riscatti e restaurazioni, di furibonde rivalità e di lente pacificazioni. Ecco: i salentini Alfredo Mantovano e Raffaele Fitto saranno due motori cruciali, trainanti del governo di Giorgia Meloni. A Palazzo Chigi, a Bruxelles e nell’articolata gestione dei fondi comunitari e del Pnrr. Prima linea, per sostanza e dossier. Retrovia, per attitudine e approcci cauti, misurati, riflessivi, non urlati, ai limiti del grigiore, e forse è davvero questo l’unico tratto comune a entrambi, mai così vicini dopo essere stati qualche vita fa tanto lontani e conflittuali, rivali al punto da marchiare a fuoco un’epoca al vetriolo del centrodestra pugliese e quindi le sorti politiche regionali.
Il presente: la scelta
“Quasi amici”, ora, o comunque ex litiganti. Un po’ per scelta e molto per riconoscenza e affiliazione (e chi l’avrebbe detto?) a Meloni, dopo i veleni, l’aspra stagione del grande gelo, le porte sbattute e infine i percorsi separati e divergenti, Fitto a ricucirsi pezzo dopo pezzo, con ago e filo, un avvenire politico e Mantovano tornato invece in magistratura, fuori dal cono di luce di partiti e candidature. Sembravano entrambi rottamati e cestinati, espulsi per sempre dal gran ballo della politica: Meloni li ha ripescati dall’album dell’ultimo governo Berlusconi, a sorpresa o forse no. Tra il 2008 e il 2011 Fitto è stato ministro delle Regioni e della Coesione, Mantovano sottosegretario agli Interni (lo era stato già dal 2001 al 2006, pur non rieletto, sconfitto all’uninominale da D’Alema).
Il futuro (e il passato)
Adesso, Fitto e Mantovano dovranno giocoforza archiviare gli anni delle reciproche ruvidezze. A dire il vero lo avrebbero già fatto da un po’, o almeno così raccontano i retroscena: il tempo che lenisce, le fratture ricomposte, «Raffaele» che invita «Alfredo» alla sua scuola di formazione politica, l’affettuoso e intimo cordoglio al magistrato per la recente scomparsa della moglie, e poi le trattative sottotraccia di queste settimane. Perché il neo ministro sapeva, ed era tra i pochissimi, della mossa a sorpresa di Meloni: cooptare a Palazzo Chigi quel magistrato ormai lontano dai riflettori e dalle tessere di partito.
Insospettabilmente “abbracciati” sotto l’ombrello della premier, al governo ci sono arrivati da traiettorie molto diverse e ognuno con la propria matrice. Fitto, dopo l’addio rumoroso a Berlusconi e l’apnea, aveva scommesso da moderato di stampo Dc su FdI, entrandoci a passi felpati e guadagnando anno dopo anno spazio nel partito e fiducia della leader, imbastendo la rete di vitali e trasversali rapporti europei, garante e passepartout della destra italiana in Ue, e mettendo a frutto competenze e conoscenze in materia di fondi europei. Mantovano, che culturalmente non ha mai abbandonato l’ancoraggio a destra, ha rafforzato relazioni sottotraccia in questi anni di toga e riflessione: i legami col mondo del cattolicesimo conservatore e col Vaticano, l’impegno con il Centro studi Rosario Livatino, le prese di posizione sui temi eticamente sensibili. E, insomma, così è rimasto - o ci è entrato - nel radar di Meloni e del suo inner circle. Intanto, la fugace sbandata per Mario Monti e Scelta civica è diventata meno di un ricordo: era il 2011-13, c’era il governo del professore sostenuto anche dal voto di Mantovano in dissenso col Pdl quando Berlusconi tolse l'appoggio al prof, il leccese sembrava destinato a candidarsi con il listone centrista, ma l’ipotesi tramontò. Porte scorrevoli, e vai a sapere cosa sarebbe stato diversamente: la politica è fatta così.
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