Nel governo Meloni il "ritorno" dei due ex litiganti Fitto e Mantovano, il volto moderato di Giorgia

Nel governo Meloni il "ritorno" dei due ex litiganti Fitto e Mantovano, il volto moderato di Giorgia
di Francesco G. GIOFFREDI
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Sabato 22 Ottobre 2022, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 24 Ottobre, 14:42

È un prestito chiesto alla storia, perlomeno a quella pugliese. Perché la politica sa essere molte cose insieme: beffarda e risarcitoria, luogo di ritorni, riscatti e restaurazioni, di furibonde rivalità e di lente pacificazioni. Ecco: i salentini Alfredo Mantovano e Raffaele Fitto saranno due motori cruciali, trainanti del governo di Giorgia Meloni. A Palazzo Chigi, a Bruxelles e nell’articolata gestione dei fondi comunitari e del Pnrr. Prima linea, per sostanza e dossier. Retrovia, per attitudine e approcci cauti, misurati, riflessivi, non urlati, ai limiti del grigiore, e forse è davvero questo l’unico tratto comune a entrambi, mai così vicini dopo essere stati qualche vita fa tanto lontani e conflittuali, rivali al punto da marchiare a fuoco un’epoca al vetriolo del centrodestra pugliese e quindi le sorti politiche regionali.

Il presente: la scelta

“Quasi amici”, ora, o comunque ex litiganti. Un po’ per scelta e molto per riconoscenza e affiliazione (e chi l’avrebbe detto?) a Meloni, dopo i veleni, l’aspra stagione del grande gelo, le porte sbattute e infine i percorsi separati e divergenti, Fitto a ricucirsi pezzo dopo pezzo, con ago e filo, un avvenire politico e Mantovano tornato invece in magistratura, fuori dal cono di luce di partiti e candidature. Sembravano entrambi rottamati e cestinati, espulsi per sempre dal gran ballo della politica: Meloni li ha ripescati dall’album dell’ultimo governo Berlusconi, a sorpresa o forse no. Tra il 2008 e il 2011 Fitto è stato ministro delle Regioni e della Coesione, Mantovano sottosegretario agli Interni (lo era stato già dal 2001 al 2006, pur non rieletto, sconfitto all’uninominale da D’Alema).

Oltre dieci anni di “pausa” non hanno evidentemente spezzato il filo della continuità: l’ex eurodeputato torna al timone dei fondi europei, prezioso proconsole e ambasciatore di Meloni a Bruxelles in questi anni di paziente militanza in Fratelli d’Italia; il magistrato potrebbe ora impugnare da Palazzo Chigi le redini dell’Autorità delegata per la sicurezza, insomma i Servizi segreti, e in passato non a caso è stato pure membro del Copasir. Premiati entrambi da Giorgia Meloni: il pacchetto deleghe pesa come piombo sui piatti della bilancia.

Il futuro (e il passato)


Adesso, Fitto e Mantovano dovranno giocoforza archiviare gli anni delle reciproche ruvidezze. A dire il vero lo avrebbero già fatto da un po’, o almeno così raccontano i retroscena: il tempo che lenisce, le fratture ricomposte, «Raffaele» che invita «Alfredo» alla sua scuola di formazione politica, l’affettuoso e intimo cordoglio al magistrato per la recente scomparsa della moglie, e poi le trattative sottotraccia di queste settimane. Perché il neo ministro sapeva, ed era tra i pochissimi, della mossa a sorpresa di Meloni: cooptare a Palazzo Chigi quel magistrato ormai lontano dai riflettori e dalle tessere di partito.


Insospettabilmente “abbracciati” sotto l’ombrello della premier, al governo ci sono arrivati da traiettorie molto diverse e ognuno con la propria matrice. Fitto, dopo l’addio rumoroso a Berlusconi e l’apnea, aveva scommesso da moderato di stampo Dc su FdI, entrandoci a passi felpati e guadagnando anno dopo anno spazio nel partito e fiducia della leader, imbastendo la rete di vitali e trasversali rapporti europei, garante e passepartout della destra italiana in Ue, e mettendo a frutto competenze e conoscenze in materia di fondi europei. Mantovano, che culturalmente non ha mai abbandonato l’ancoraggio a destra, ha rafforzato relazioni sottotraccia in questi anni di toga e riflessione: i legami col mondo del cattolicesimo conservatore e col Vaticano, l’impegno con il Centro studi Rosario Livatino, le prese di posizione sui temi eticamente sensibili. E, insomma, così è rimasto - o ci è entrato - nel radar di Meloni e del suo inner circle. Intanto, la fugace sbandata per Mario Monti e Scelta civica è diventata meno di un ricordo: era il 2011-13, c’era il governo del professore sostenuto anche dal voto di Mantovano in dissenso col Pdl quando Berlusconi tolse l'appoggio al prof, il leccese sembrava destinato a candidarsi con il listone centrista, ma l’ipotesi tramontò. Porte scorrevoli, e vai a sapere cosa sarebbe stato diversamente: la politica è fatta così.

I vecchi rancori

Ma la politica è fatta anche di incroci che sembrano una danza e un romanzo. Occhio, già oggi magari, a quella che gli americani chiamano photo opportunity: Fitto e Mantovano insieme a favore di flash, come non accadeva da secoli. Prego scorrere l’archivio storico delle foto, ormai datate: affiancati, e capitava spesso, ma con i volti tirati, gli sguardi che nemmeno si incrociavano. D’altro canto nel primo ruggente decennio del 2000 il figlio della Dc con la religione dei consensi e dei territori e il magistrato e studioso ex An - colonnelli del centrodestra pugliese così dissimili ma obbligati a convivere - litigavano a labbra strette per tutto, pure per una candidatura a consigliere comunale in più o per un coordinatore provinciale. Erano i tempi del Pdl, del berlusconismo imperante, del bilancino e delle quote di spartizione nel partito, 70% a me e il 30% a te, guai a commettere errori. Fitto e Mantovano erano la rappresentazione plastica della precaria fusione a freddo del Pdl, i moderati e la destra, gli ex Forza Italia e gli ex An a contendersi postazioni e truppe. In Puglia come non mai, tra fiumi d’astio. Una guerra quotidiana, di successi e sgambetti. Che forse finì per sfibrare, sfinire e appannare entrambi, alla lunga. Ora la nuova stagione che non dimentica il vecchio li “riabilita” e rilancia, come se fosse un movimento circolare. Senza più beffe e rancori. Quasi amici nel nome di «Giorgia». Forse.

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