Moro: «Presidenzialismo e autonomia differenziata? I temi per il nuovo governo sono altri»

Moro: «Presidenzialismo e autonomia differenziata? I temi per il nuovo governo sono altri»
di Paola ANCORA
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Lunedì 3 Ottobre 2022, 05:00

Giuseppe Moro, ordinario di Sociologia e direttore del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari, Fratelli d’Italia vorrebbe riformare l’assetto dello Stato in senso presidenziale. Cosa ne pensa?
«La consapevolezza che tutti dovremmo avere è che una riforma simile cambierebbe profondamente l’assetto politico e istituzionale che l’Italia ha sempre avuto, con un policentrismo dei poteri, un sistema di pesi e contrappesi. Il nostro Paese non è una federazione, come gli Usa: il sistema immaginato da FdI somiglierebbe molto a quello francese, dove esiste una lunghissima tradizione di governi centrali molto forti. Non può ridursi tutto a “eleggiamo direttamente il presidente della Repubblica”».
Secondo il partito di maggioranza relativa, tuttavia, la riforma in senso presidenziale – è scritto nel programma elettorale - “è la prima riforma economica di cui l’Italia ha bisogno”. L’instabilità dei Governi ha un suo costo economico o no?
«La stabilità dei governi non ha a che fare con l’economia, perché a capo di un esecutivo può anche esserci un irresponsabile che accompagna un Paese al default. È ciò che accade periodicamente in Argentina da 40 anni a questa parte. Semmai, con una riforma presidenziale come quella delineata, il sistema di pesi e contrappesi inizierà a non funzionare più e tutto dipenderà da chi sarà eletto».
Come giudica l’autonomia differenziata cara alla Lega di Matteo Salvini e alle tre Regioni che l’hanno richiesta, ovvero Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna?
«Innanzitutto va evidenziato che il presidenzialismo e l’autonomia sono riforme antitetiche, che porterebbero ad elevati livelli di conflitto nelle forze di centrodestra. La prima prevede un accentramento dei poteri statali, la seconda si muove nel solco del federalismo. Dunque, a meno che non si voglia trasformare l’Italia in uno Stato federale, non comprendo cosa si potrà fare. Da meridionale l’autonomia differenziata mi preoccupa certamente più del presidenzialismo perché il rischio, banalmente, è che i poveri diventino più poveri e i ricchi più ricchi. Senza un discorso serio sui Livelli essenziali delle prestazioni, l’autonomia non può essere portata avanti ed è incomprensibile che, su questo tema, la sinistra si sia accodata alla Lega».
Allora troverà incomprensibile anche i voti alla Lega nel Sud Italia.
«Sono stati molto pochi, a dire il vero, e concentrati soprattutto nelle sfide uninominali. L’impressione è che su questi temi ci si giochi, perché il centrodestra li mette sul tavolo insieme, dando un colpo al cerchio e uno alla botte, ma evidenziando la reale diversità di vedute di una compagine che vorrebbe, invece, apparire unita».
Astensionismo: un problema urgente di tenuta democratica del Paese, che nel Mezzogiorno è anche più grave. Come risolverlo?
«In molti Paesi di antica democrazia una parte sempre più importante dell’elettorato si sente escluso dalle istituzioni. Non si va a votare perché non ci si sente parte di una comunità e questo ha una forte correlazione con le condizioni culturali, economiche e sociali nelle quali si vive. Negli ultimi 20 anni il tema dell’inclusione delle masse popolari nello Stato è stato emarginato o affrontato soltanto in chiave assistenzialista, ma il vero strumento di inclusione nella vita sociale di un Paese è il lavoro, sul quale la nostra Repubblica è fondata e che oggi è precario, nero, marginale, povero. Tutto il resto sono chiacchiere».
Con la crisi economica profonda che stiamo vivendo, è difficile immaginare che le percentuali di lavoro “buono” aumentino nel breve termine. Ha senso, dunque, introdurre l’obbligo di voto che già esiste in 27 Paesi del mondo?
«Il dovere di votare esiste anche qui e il voto per le Politiche era percepito come un dovere, prima che come un diritto. Tornare a evidenziare questo aspetto è certamente importante».
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza potrebbe essere rivisto dal centrodestra al governo. Cosa ne pensa?
«Questo Pnrr ha tanti limiti ed è stato costruito frettolosamente, ma ripensarlo in corsa mi preoccupa molto. Corriamo un grande rischio a cambiare tutto ogni volta che cambia maggioranza di governo. In questo caso specifico, corriamo il rischio che alcuni punti importanti del Piano vengano cancellati, come gli investimenti per l’Università e la ricerca o la previsione del 40% dei fondi al Mezzogiorno».
Un altro tema sul quale si è concentrato il dibattito di questi giorni è quello dei diritti. Da sinistra si teme una compressione anche di quelli acquisiti. È un rischio concreto o l’ultima spiaggia di partiti progressisti ormai svuotati di temi e consensi?
«Non è che la sinistra abbia brillato in questi anni sul tema dei diritti: l’allarme appare tardivo. Pensiamo a tutte le occasioni avute per varare lo ius soli. Vedremo. È certamente un tema delicato, ma dubito che chiunque governi riesca a mettere in discussione le libertà civili acquisite dai cittadini italiani. Non verrebbe accettato da nessuno. Il voto del 25 settembre esprime un pensiero più complesso».
È stato anche un voto di protesta? Per qualcuno la sinistra è morta insieme alla classe operaia di marxiana memoria.
«La sinistra è morta, ma la classe operaia esiste ancora e vota Fratelli d’Italia oggi come ieri votava Lega. La cosa che la sinistra sa fare meglio è l’analisi della sconfitta e pur non essendo io uno sportivo di questa disciplina, ripensare la centralità del lavoro è un’urgenza non più rinviabile. L’errore capitale, a sinistra, è stato questo: l’Italia è il secondo Paese manifatturiero dopo la Germania, ma il legame fra la sinistra e il mondo del lavoro non esiste più».
Il 2023 potrebbe portare l’Italia in recessione. La Puglia e il Sud pagherebbero uno scotto fortissimo.
«La recessione sarà più dura da affrontare dove l’economia è più debole e meno strutturata, è vero. La priorità del governo dovrà essere la difesa dell’economia nazionale, anche perché i diritti civili, senza i diritti sociali, perdono di importanza per i cittadini. Fermarsi al presidenzialismo, all’autonomia o a un dibattito scarno su diritti più o meno astratti, senza affrontare i temi concreti dell’agenda economica, finirebbe per allontanare le persone dalla politica ancora di più».
Pesa anche la crisi dei partiti, che hanno dismesso ormai il loro ruolo di corpi intermedi. Come rimediare?
«I partiti sono ormai trasformati in comitati elettorali per far eleggere qualcuno. E il sistema elettorale attuale è peraltro omogeneo a questa struttura. Sono partiti svuotati del loro senso, che è la partecipazione. Non sono più uno strumento di mediazione e questo dato oggi è diventato clamoroso, riguarda tutti i partiti dell’arco costituzionale. Il problema reale è che là dove non esistono strumenti che permettano ai cittadini di far sentire la loro voce – votiamo senza preferenza da almeno 10 anni - le democrazie finiscono per sembrare un lusso che appartiene al passato e del quale potremmo fare a meno».
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