Dalla Puglia alle stelle, Cataldo: «Vi racconto la Nasa e l'universo a colori. Io cervello in fuga? Non proprio»

Dalla Puglia alle stelle, Cataldo: «Vi racconto la Nasa e l'universo a colori. Io cervello in fuga? Non proprio»
di Giuseppe ANDRIANI
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Domenica 17 Luglio 2022, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 17 Febbraio, 22:04

Quando dice che nel telescopio James Webb, il primo a fornirci immagini a colori dell’universo a 12,5 miliardi di anni luce, c’è anche una parte di sé, Giuseppe Cataldo abbassa la voce. Quasi per umiltà. Ma dice il vero. Giuseppe ha 36 anni, è nato e cresciuto a Lizzano, cittadina dal mare splendido a pochi chilometri da Taranto, si è diplomato a Sava, poi a 18 anni ha scelto di andare a studiare a Milano. È arrivato a lavorare alla Nasa come chief engineer, è stato chiamato ancor prima della laurea. Ha studiato anche in Francia. La sua è una vita normale diventata un sogno. Ha lavorato sul telescopio Webb con calcoli matematici e da Greenbelt, sede del Goddard Space Flight Center racconta le emozioni del successo scientifico. Con un’avvertenza: «Non chiamatemi cervello in fuga». 

 

Giuseppe Cataldo, il telescopio James Webb ci ha mostrato l’universo a colori. Come spiegherebbe la portata rivoluzionaria di questa innovazione a chi non è del settore?
«Le immagini e i dati che abbiamo ricevuto ci rivelano tanti nuovi dettagli del nostro universo, molti dei quali ancora sconosciuti fino a qualche giorno fa. Queste foto terranno gli scienziati occupati per un po’ di tempo. Abbiamo toccato tante aree tematiche, dalla luce delle stelle più antiche dell’universo a galassie e nebulose, luoghi dove si formano stelle e pianeti. Fino a trovare i dati di un pianeta al di fuori del sistema solare che mostrano la presenza di acqua sotto forma di vapore. E quindi anche di nuvole e foschia nell’atmosfera. Ci ha sorpresi la velocità con cui il telescopio è riuscito a realizzare queste immagini, a tempo di record.

La portata scientifica è enorme».

Un lavoro immane e lungo.
«Sono serviti oltre 25 anni di lavoro. Io ero ancora un bambino (sorride, ndr). Ci sono arrivato nel 2014, relativamente verso la fine». 

Il suo ruolo nel progetto qual è stato?
«Ho lavorato con vari modelli matematici che abbiamo sviluppato per progettare la performance del telescopio. Il problema principale riguardava il collaudo, perché era troppo grande e sulla Terra non si poteva fare. E quindi abbiamo dovuto affidarci a questi modelli matematici. Mi sono occupato di questo per vari anni e ho lavorato sul telescopio, con alcune prove di collaudo, che mi hanno permesso di toccarlo con mano».

Lei, un pugliese alla Nasa, come è arrivato a lavorare per il telescopio James Webb? 
«Ci sono arrivato quasi per caso. All’epoca facevo un dottorato e stavo studiando, il mio capo mi aveva sentito parlare di alcuni corsi che avevo seguito a Boston. E subito ha pensato che queste conoscenze che avevo acquisito potessero servire a risolvere dei problemi che in quel momento c’erano. E mi ha chiesto un giorno: “Vorresti collaborare a questo progetto?”. E ho detto subito sì. Diciamo per caso, grazie però a delle conoscenze tecniche che sono state considerate utili».

E in America come ci è arrivato, invece?
«Ci sono arrivato attraverso un programma chiamato Accademia della Nasa, studiavo in doppia laurea a Milano e in Francia e fui selezionato come uno dei due studenti europei partendo per Whashington nel 2009. Poi sono rimasto qui. Nel 2010 ho ricevuto l’offerta di lavoro definitiva».

Se le dico: cervello in fuga, si rispecchia?
«Io non sono fuggito dall’Italia, sono qui per tutta una serie di eventi che le ho appena raccontato. Non mi considero strettamente parlando un cervello in fuga, ma un cervello che si è ritrovato qui date le circostanze. Purtroppo però il problema esiste, non si può nascondere che in tanti vanno via dall’Italia per tutta una serie di problemi che il Paese sta cercando di risolvere. E deve continuare a migliorare, per fare in modo che i cervelli non scappino al ritmo con cui succedeva qualche anno fa».

Anni fa in un’intervista disse che le sarebbe piaciuto rientrare, prima o poi. La pensa ancora così?
«Non escludo la possibilità di rientrare nel lungo termine. È sempre il mio Paese. E mi piacerebbe in parte ridargli quello che mi ha dato».

Facendo un passo indietro, prima di essere un pilastro della Nasa, com’era la sua vita in una cittadina di 9.000 abitanti alle porte di Taranto? Lizzano ha un mare bellissimo, ma non le stesse opportunità del Maryland. Come viveva?
«Sono sempre stato coinvolto in tante attività, ho fatto il conservatorio, suonavo il violino e il pianoforte, ero un boyscout, ho sempre praticato tanto sport come nuoto, pallavolo e calcio. Ho sempre coltivato tanti interessi a Lizzano e in provincia di Taranto. Così ho allargato i miei orizzonti. Poi quando sono arrivato a Milano mi si sono aperte ulteriori possibilità. Idem in Francia».

Perdoni la battuta, ma è facile immaginare che ha cominciato a studiare le stelle nelle notti da boyscout. Si aspettava di realizzare un sogno così grande?
«Ho sempre sognato di lavorare per la Nasa. Sono sincero: pensavo che l’avrei potuto realizzare quando forse un giorno sarei diventato un professore importante, una persona conosciuta, a 50 o 60 anni. Non mi sarei mai aspettato mentre guardavo le stelle in cielo, nelle notti da boyscout, che avrei realizzato il sogno di lavorare alla Nasa già a 23 anni. Ci penso ora, ho sognato tanto ad occhi aperti guardando le stelle».

Le manca qualcosa dell’Italia?
«La Puglia. È la mia terra in senso lato. Ci ho vissuto 18 anni, quando ci vivi forse non riesci ad apprezzarle ma poi ti mancano. E devo dire che ho nel cuore anche Milano».

Quando sono arrivate le prime foto, che ha pensato?
«Stupore e bocca aperta. Non sono riuscito a dire neppure una parola. Sono rimasto davvero estasiato di fronte alla bellezza e al valore scientifico di quelle immagini e di quei dati. E poi ho pensato: posso dire che c’è qualcosa di mio in questa macchina così spettacolare che ha solo iniziato a farci conoscere meglio l’universo. E poi ho iniziato a ricevere tanti messaggi, inaspettati, lì ho realizzato quello che abbiamo fatto». 

Il messaggio più bello?
«Sono stati tanti. Però molti mi scrivevano “amico mio”. E una persona mi ha scritto: “Hai contributo alla storia dell’umanità”. Sono parole enormi, mi hanno colpito. Effettivamente possiamo dire che la storia della scienza è iniziata a cambiare a partire dal 12 luglio».
 

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