Fine vita, nodo etico «Terapia del dolore: regola, non eccezione»

Fine vita, nodo etico «Terapia del dolore: regola, non eccezione»
di Ilaria MARINACI
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Sabato 9 Novembre 2019, 12:11 - Ultimo aggiornamento: 19:10
«Come si concilia il diritto di morire con il dovere dei medici di tutelare la vita? E non sarebbe più giusto finanziare con le opportune risorse la legge sulle cure palliative, mai attuata per mancanza di fondi?». Sono questi alcuni dei dubbi emersi ieri durante un convegno sul fine vita organizzato dal Centro Studi Livatino al Tribunale penale di Lecce. Il dibattito su questo delicato tema, con tutte le sue implicazioni etiche e giuridiche, si è riacceso dopo che la Corte Costituzionale ha preannunciato con una inusuale nota stampa diffusa lo scorso 25 settembre una sentenza sulla non punibilità «a determinate condizioni» dell'aiuto al suicidio di chi sia già determinato a togliersi la vita. Al centro dell'incontro coordinato da Francesco Cavallo e introdotto dagli interventi di Antonio De Mauro e Donato De Giorgi, presidenti delle sezioni leccesi, rispettivamente, dell'Ordine degli Avvocati e di quello dei Medici le relazioni di Alfredo Mantovano, ex parlamentare, consigliere presso la Corte di Cassazione e vicepresidente del Centro, e di Antonio Magi, presidente dell'Ordine dei Medici di Roma.

«Un giurista riflette De Mauro deve porsi in una posizione laica su questa questione e chiedersi, nei casi in cui la dignità della persona è compromessa, se non sia giusto normare la sua volontà di morire». Ma in tal caso la comunità sanitaria si ritroverebbe di fronte a un dilemma di non poco conto. «Non si tratta di essere obiettori chiarisce De Giorgi ma di porsi una domanda semplice e, allo stesso tempo, complessa: procurare o facilitare la morte è un atto medico? Il Legislatore deve tenere conto anche della nostra sensibilità. Non si può arrivare a una norma in conflitto con le nostre regole deontologiche che sanciscono la sacralità della vita, intesa in senso laico». A questo proposito, Magi specifica un particolare non trascurabile di quanto anticipato della sentenza. «Non dice che deve essere il medico l'operatore finale. Tanto più che il medico è per la vita, deve curare e, se necessario, accompagnare verso la morte, ma non può dare la morte, neppure se è il paziente stesso a chiederglielo. Lo dice chiaramente il nostro codice. Quindi, a chi il Parlamento darà questo mandato, se si farà una legge? L'operatore finale potrebbe anche essere un parente».

Nell'attesa di leggere nel dettaglio il dispositivo della sentenza, che ancora non è stato pubblicato, Mantovano evidenzia alcuni aspetti controversi, come la correlazione fra autodeterminazione e dignità. «Ma l'autodeterminazione è limitata, mentre la dignità sottolinea l'ex sottosegretario all'Interno non ha limiti». Mantovano spiega di non condividere il cosiddetto accanimento terapeutico perché entrambi gli estremi (accanimento ed eutanasia) sono inaccettabili. «Di fondo rimarca c'è l'idea che la medicina sia quasi onnipotente». Per il magistrato «lasciar morire è diverso da far morire, la morte non va impedita ad ogni costo, ma solo quando è ragionevole farlo». Detto questo, Mantovano si sofferma su un passaggio della nota della Corte Costituzionale, che riprende quanto già scritto nell'ordinanza n. 207 dello scorso anno della Corte stessa, sempre su questo argomento. In entrambi i casi, sollecitando un intervento del Legislatore, la Corte subordina la non punibilità «al rispetto delle modalità previste si legge nella nota dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua (articoli 1 e 2 della legge 219/2017) e alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del SSN, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente».

«Se la Corte dice che le cure palliative sono il pre-requisito e a queste subordina il fine vita, allora è il caso di riparlare di questa questione fra dieci anni dopo che conclude il magistrato in bilancio saranno messi i fondi necessari per formare il personale e garantire le prestazioni domiciliari, come finora non è mai stato fatto». In sostanza, per Mantovano bisogna pretendere che la pratica della terapia del dolore non sia un'eccezione com'è adesso, ma la regola.
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