Crollo dei Cinque Stelle: al sud non basta il reddito di cittadinanza

Crollo dei Cinque Stelle: al sud non basta il reddito di cittadinanza
di Francesco G.GIOFFREDI
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Lunedì 27 Maggio 2019, 02:06 - Ultimo aggiornamento: 12:18
I cicli convulsi della politica rimescolano ancora una volta carte ed equilibri. Stavolta sono le elezioni europee a scuotere la scena nazionale, e le regioni del Mezzogiorno recitano come sempre un ruolo cruciale: le prime proiezioni notturne consegnano spunti in parte attesi e in altra misura sorprendenti. La Lega mette la freccia ed è il primo partito italiano al 34%, raddoppia i consensi nazionali, e s'avvia a farlo anche al Sud (24,6 la proiezione più avanzata), ma qui non assesta ancora l'impennata finale tale da garantire al Carroccio la leadership meridionale. Il Movimento cinque stelle è in palese sofferenza, si attesta sotto il 18% (32% nazionale nel 2018) non solo frana alle spalle dei salviniani, ma cede il secondo gradino del podio nazionale al Pd; e soprattutto i pentastellati flettono vertiginosamente nelle regioni meridionali, cioè nelle aree-granaio di un anno fa: 29,9%, primo partito meridionale, ma con erosione di consensi a doppia cifra percentuale. Sono loro il vero caso di questa tornata, il calo è netto. «Paghiamo l'astensionismo del Sud», ha ammesso a caldo e in nottata Luigi Di Maio ai suoi. Non basta per spiegare e giustificare.

I democratici, come detto, ritrovano nelle Europee un efficace tonico rivitalizzante e risalgono un po' la china rispetto alle Politiche del 2018: 22% nazionale, al Sud sono tuttavia terzi al 16,8% (sempre in base alle proiezioni). Forza Italia scende sotto la quota critica del 10% (è all'8,5% nazionale, 11,7 nelle regioni meridionali), mentre Fratelli d'Italia centra e supera abbondantemente la soglia di sbarramento del 4%, provando a mettere nel mirino i berlusconiani (ultima proiezione al 6,4%, al Sud addirittura al 7,6%). Col fiato corto e sotto il limite della sopravvivenza invece gli altri tre simboli di centrosinistra (+Europa, La Sinistra ed Europa Verde, ma il partito di Emma Bonino si candida a strappare il 4%). Briciole per gli altri.

Un quadro omogeneo in tutto il Paese, ma che nelle regioni del Sud presenta specificità non marginali, o persino emblematiche. L'affluenza in calo (rispetto alle Europee del 2014, ma soprattutto in rapporto alle Politiche 2018) è un primo indizio che orienta l'analisi. Il caso di studio sono i cinque stelle: un anno fa s'arrampicarono fino a vette da Dc dei tempi d'oro, in Puglia raccolsero il 45%; l'esperienza di governo - soprattutto in condominio con la Lega - ha decisamente ammaccato la corazza di Luigi Di Maio e soci, tra promesse tradite e approcci troppo timidi o confusionari. Inevitabile ricordare i balbettamenti sul reddito di cittadinanza, le brusche retromarce su Tap e Ilva, le auto-sconfessioni su xylella, ma anche i cedimenti programmatici alla Lega poco graditi soprattutto all'elettorato duro e puro della prima ora.

Sarà interessante la lettura e l'interpretazione dei flussi elettorali: dove sono finiti i voti dei pentastellati? Nel buco nero dell'astensionismo? Assorbiti dalla Lega? O in alcuni casi tornati al Pd? E già s'affollano - nella notte, tra i pentastellati - le prime rese dei conti su programma, mosse governative, scelta dei capilista, strategia elettorale e responsabilità dei singoli esponenti di vertice, a cominciare dallo stesso Di Maio e dalla ministra del Sud Barbara Lezzi.

Anche per l'altro azionista del governo, la Lega, il Mezzogiorno è un perimetro che fa storia a sé. Alle Politiche 2018 il partito di Matteo Salvini era inchiodato al 6% in quasi tutte le regioni meridionali. Se l'inconfessabile obiettivo nazionale del ministro dell'Interno era agguantare il 30% o rasentarlo (dopo il 17% dello scorso anno) e affermarsi come primo partito italiano, la vera incognita era proprio il Sud: da Lecce, Salvini aveva fissato al 15% la soglia-champagne, cioè il risultato più che soddisfacente. Il bersaglio è centrato, pure ben oltre le aspettative, grazie alla revisione dell'agenda e a una leadership pervasiva. Anche se le regioni meridionali continuano a far registrare ancora un comprensibile e fisiologico ritardo rispetto alla media nazionale leghista e soprattutto a quella dei territori settentrionali.

Ora Salvini braccherà sempre più i pentastellati, affermando il primato nell'alleanza gialloverde, e l'agenda Sud del governo diventa così un rebus di complessa lettura: reddito di cittadinanza, opere pubbliche, e soprattutto fondi strutturali europei, investimenti e Università sono partite meridionali su cui il braccio di ferro tra leghisti e pentastellati genererà scintille. Da una parte la Lega che ruggisce e vuol fare la parte del leone, dall'altra il M5s che sente franare il terreno sotto i piedi e vuol arrestare l'emorragia di consensi. Al di là del rilevantissimo fattore europeo (cambia sensibilmente l'inclinazione e l'approccio ideologico della delegazione europarlamentare italiana, cambiano anche le famiglie politiche a cui affiliarsi), è sotto gli occhi di tutti l'effetto a cascata sugli equilibri di casa nostra e sul governo. Ad ogni modo Salvini - durante la conferenza stampa notturna - spiega: «Il mio avversario era ed è il Pd» e «si va avanti con questo governo». Apparenza o armi deposte dopo le reciproche e tattiche bordate Lega-M5s della campagna elettorale?

Chi riattiva circuiti che sembravano spenti, soprattutto al Sud, è il Pd. Al segretario nazionale Nicola Zingaretti riesce, almeno nei limiti del preventivabile, la chiamata alle armi: non argina la Lega, ma almeno compatta un po' le file del centrosinistra. Ci riesce in parte anche nelle regioni meridionali, dove un anno fa la battuta d'arresto per il Pd era stata violenta (in Puglia si fermò al 14%). Zingaretti così soffoca sul nascere scissioni al centro e tenta le liste che non hanno accettato il progetto unitario (+Europa, La Sinistra, Europa Verde). Segnali anche in ottica 2020, quando ci sarà un rilevante turno di elezioni regionali (si voterà anche in Puglia). Ma la strada da fare, a Roma e in periferia, resta ancora tantissima e in salita.

Nel centrodestra virtuale (tutti in ordine sparso, ognuno per sé a prescindere dal sistema proporzionale delle Europee), Forza Italia vorrebbe non scivolare al di sotto del 10%, al Sud sembra realizzare una performance migliorativa rispetto ad altre aree del Paese. Così come Fratelli d'Italia: a Giorgia Meloni è riuscita l'operazione del sovranismo conservatore, intercettando il tema mainstream ma agganciandolo a una cornice di destra conservatrice, sfruttando - soprattutto al Mezzogiorno - il patto con Raffaele Fitto e Direzione Italia. E i numeri parlano chiaro, al punto da alitare sul collo di Forza Italia.

Soltanto oggi sarà possibile analizzare i risultati dei singoli candidati, il cui ruolo è stato fondamentale: si è votato con preferenza personale e concorrenza interna nelle singole liste. Di sicuro i fari s'accendono sui leader e sui consolidati portatori di voti. Così come, a lungo andare, sarà centrale la lettura delle elezioni in proiezione pugliese: le percentuali di consenso e i rapporti di forza tra aree politiche e dirigenti tracceranno la strada per il futuro. Nel centrosinistra, sempre litigioso e a rischio scissione. E nel centrodestra, che su scala territoriale cerca il giusto mastice e motivi di unità, ma che ora vede cambiare sensibilmente gli equilibri interni.

 
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