Dalla Chiesa e i 40 anni della Scu: «La mafia non cambia, è la stessa di sempre»

Nando Dalla Chiesa è il secondogenito di Carlo Alberto, generale trucidato a Palermo

Nando Dalla Chiesa
Nando Dalla Chiesa
di Roberta GRASSI
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Giovedì 4 Maggio 2023, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 16:59

Mafia è. E mafia resta. Un nemico feroce dagli schemi fissi, dall’impianto che, in fondo, «non è mai mutato». Ne è convinto Nando Dalla Chiesa, secondogenito di Carlo Alberto, generale trucidato a Palermo. Scrittore, politico, ordinario di “Sociologia della criminalità organizzata”, “Sociologia e metodi di educazione alla legalità” e “Geopolitica e criminalità organizzata” all’Università degli Studi di Milano, Dalla Chiesa è anche presidente onorario di Libera. Oggi incontrerà gli studenti del liceo scientifico “Leonardo Da Vinci” di Maglie, istituto che è presidio dell’associazione antimafia. In una terra, il Salento, che da quarant’anni combatte contro l’azione più o meno subdola della Sacra corona unita, la meno blasonata fra le associazioni organizzate italiane, fondata il primo maggio 1983 - stando alla datazione più accreditata - nel carcere di Bari. 
Professore Dalla Chiesa, cosa è la mafia oggi?
«So che questo non rientra nei criteri tradizionali di descrizione della realtà odierna, ma penso che sia rimasta la stessa cosa di sempre. Le forme cambiano, gli affari cambiano, la sostanza è immutata: la mafia è una forma di esercizio del potere che si fonda sulla violenza. E che ha due simboli: terra e fuoco. Il fuoco per intimidire. E la terra perché, sebbene si dica che il principale interesse sia la finanza, in realtà la mafia mantiene una mentalità contadina: fa affari con l’immobiliare, con lo smaltimento dei rifiuti, il governo del territorio, l’eolico. Lo stesso Falcone ironizzava sull’abitudine di parlare sempre di una mafia nuova e di valorizzare questo aspetto soprattutto quando essa sembrava più pericolosa». 
Probabilmente è il grado di scolarizzazione ad essere mutato nel tempo? Si parla tanto di borghesia mafiosa. 
«Di figli di mafiosi mandati a studiare a Boston o a Oxford non c’è un solo caso. Ci sono casi di famiglie che hanno mandato i loro figli nelle università private italiane, questo sì. Da una ricerca fatta nel 2018 sul livello di studi dei mafiosi, emerge che il titolo più diffuso è la licenza media. Ci sono le eccezioni, è vero: ci sono i medici, gli avvocati. Ma la mafia ha sempre avuto medici e avvocati». 
Luoghi comuni, dunque?
«Le mie prime lezioni avevano come tema la storia delle organizzazioni criminali. Quando poi mi sono reso conto che qualsiasi panzana viene creduta, ho deciso di iniziare proprio demistificando i luoghi comuni». 
I principali?
«Il mafioso in doppiopetto, il mafioso con la valigetta e mai uno zaino o un altro tipo di borsa. La mafia che riempie i cortili di Oxford e Boston, appunto». 
E l’antimafia? Cosa è oggi?
«Rispetto a quarant’anni fa, quando eravamo in pochi a girare per l’Italia e subivamo una certa emarginazione dagli ambienti che contavano, adesso l’antimafia è diventata una causa accreditata anche istituzionalmente. Offre qualcosa a chi ne è considerato protagonista e rappresentante. Qualche volta possono esserci delle distorsioni. Ma è uno dei frutti della vittoria. Quella a cui io credo di appartenere è un’antimafia coi piedi scalzi. Un’antimafia che cammina senza tappeti rossi». 
Anche qui, il confine è sottile. C’è un concreto pericolo di travisamenti. E battaglie molto diverse fra loro.
«Faccio un esempio. Io sostengo il 41 bis, ma non l’ergastolo ostativo. Il 41 bis lo abbiamo votato tre settimane dopo la strage di via D’Amelio e non era stato immaginato per personaggi come Cospito. È evidente che c’è stata una strumentalizzazione tanto del caso Cospito quanto dell’ergastolo ostativo. Questo è servito a far difendere gli interessi mafiosi, inconsapevolmente, da studenti delle superiori che invece volevano solo portare in piazza la parola dei centri sociali o dei gruppi anarchici. È stata una grande operazione politica. Ed è stato un errore consentirlo». 
Non pensa quindi che per dimostrare di aver preso le distanze da contesti mafiosi si debba necessariamente collaborare con la giustizia? 
«Ci sono componenti di famiglie importanti di ‘Ndrangheta e Camorra che attraverso il teatro hanno abbandonato il modo di sentire delle loro famiglie d’origine. Ma non hanno mai collaborato. Eppure se ne sono andati. È la dimostrazione che non è vero che la redenzione debba per forza passare attraverso la collaborazione». 
C’è qualcosa che non ha funzionato nella narrazione sull’arresto di Matteo Messina Denaro?
«Io avrei valorizzato il fatto che lo Stato buono ha prevalso su quello cattivo. Abbiamo trascorso trent’anni a lamentarci della mancata cattura. Una volta avvenuta, abbiamo iniziato a chiederci come mai fosse stato preso. La cosa più sensata, conoscendo come è fatta la cultura mafiosa, l’ha detta un’infermiera: se ci fosse stato un accordo, Matteo Messina Denaro non avrebbe lasciato il Viagra in giro. Spesso siamo inadeguati al racconto, c’è pochezza nell’affrontare il tema».
Tema attualissimo, la trattativa Stato-mafia e il processo che se n’è occupato. La sentenza fa discutere. 
«Non conosco gli atti del processo e la materia è molto delicata. In generale, dall’esterno, penso che certe scelte politiche possono essere sciagurate, ma non per questo costituire dei reati. La decisione politica non può essere portata all’interno della sfera penale».
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