Mascherine introvabili: in Puglia produttori bloccati dalla burocrazia

Mascherine introvabili: in Puglia produttori bloccati dalla burocrazia
di Francesco G.GIOFFREDI
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Domenica 5 Aprile 2020, 09:55 - Ultimo aggiornamento: 6 Aprile, 09:01

Il fronte si sdoppia, le criticità anche. Le istituzioni restano impantanate in mezzo al guado, le imprese bloccate. E la spasmodica corsa alle mascherine protettive non perdona ed esenta nessuno: personale sanitario e comuni cittadini. Prezioso e introvabile presidio protettivo per i primi, merce quasi rara per tutti gli altri. Una duplice carenza che sintetizza il paradosso: se i dispositivi di protezione per medici e infermieri (Ffp2 e Ffp3, con e senza valvola) devono attenersi a rigorosi canoni produttivi e a certificazioni inderogabili, le protezioni comuni possono viceversa far leva su una legislazione molto più elastica.

Insomma: le semplici fasce per bocca e naso - per andare a fare la spesa o per lavorare - restano comunque irreperibili, spesso. Almeno in Puglia. Squilla allora, forte, l'allarme: in Lombardia - regione pilota, dal lockdown in poi - da oggi si potrà andare in giro soltanto muniti di mascherina, altrettanto nelle prossime settimane potrebbe accadere nel resto d'Italia, e non certo per poche settimane. Ma gli stock di dispositivi protettivi sono insufficienti, l'estero non può essere l'unico canale d'approvvigionamento e i produttori italiani non riescono a far decollare la produzione. Anche, o soprattutto, per limiti strutturali del sistema Paese e della griglia normativa.

Tutta Italia s'è fatta cogliere impreparata, il Sud di più. La Regione Puglia aspetta quotidianamente come una manna dal cielo i carichi della Protezione civile per il personale sanitario (ogni giorno occorrono 135mila chirurgiche, 33.500 Ffp2 e altrettante Ffp3), ha provato a giocare la carta degli acquisti dall'estero e ha timidamente esplorato la strada della produzione interna. Il Politecnico di Bari ha raccolto le manifestazioni d'interesse delle imprese pugliesi e impartito le linee guida, in 7 casi su 165 le chance produttive sono più consistenti.



Ma ci sono due scogli grandi così e al momento insormontabili, per tutti: le mascherine per il personale sanitario devono avere un'anima di materiale filtrante di difficile reperimento (il tnt meltblown, prodotto a prezzi competitivi solo in Cina e Vietnam) e devono superare il severo sbarramento della certificazione (Istituto superiore sanità e Inail). In Puglia, poi, le imprese hanno bisogno di progettualità ampia o di politiche di filiera per riconvertirsi quasi ex novo, e il Politecnico non è ente certificatore. L'unico macchinario per validare in loco i prodotti è privato ed è della Masmec di Modugno.

Intanto però gli imprenditori pugliesi cominciano a fare massa critica e a portare il pressing su Michele Emiliano. Ieri è partita una lettera - al momento con 11 firme - che lancia l'appello: «Anche noi siamo pronti a convertirci. Con i nostri dpi potremmo salvare i posti di lavoro e i sanitari pugliesi». La proposta è chiara: «Ringraziamo il Politecnico per l'attività svolta finora. Ma abbiamo bisogno di una marcia in più. Abbiamo bisogno che la Regione sia al nostro fianco. Per questo chiediamo indicazioni chiare e univoche sul reperimento della materia prima necessaria, sulla rete dei laboratori pugliesi che possano testare i nostri tnt e i nostri materiali, sulla costituzione di gruppi d'acquisto locali e di un canale di distribuzione protetto per tutto il territorio regionale». Le imprese lanciano il guanto di sfida: «Siamo in grado di poter produrre centinaia di migliaia di mascherine al giorno, ma anche camici, calzari, cuffie monouso e scafandri. Abbiamo bisogno di interloquire rapidamente con l'Istituto superiore della sanità e con l'Inail, per questo chiediamo su base regionale scelte rapide e semplici». Tra le 11 imprese anche Luciano Barbetta srl di Nardò, Diamond Couture di Veglie (entrambe settore tessile) e Smart Lab Italia di Bitonto (settore etichettatura; casa madre a Mottola, nel Tarantino). In orbita Politecnico gravitano pure tre aziende pugliesi pronte a realizzare le valvole per le Ffp2 e Ffp3.

Il decreto Cura Italia doveva semplificare, ma s'è rivelato una botola. L'articolo 15 riguarda i dpi per sanitari e permette di «produrre, importare e immettere in commercio mascherine chirurgiche e dispositivi di protezione individuale in deroga alle vigenti disposizioni»: per avviare la produzione basta un'autocertificazione, ma entro tre giorni bisogna trasmettere all'Istituto superiore di sanità «ogni elemento utile alla validazione delle mascherine». Tradotto: la certificazione è comunque necessaria, i tempi non sono necessariamente rapidi (finora in tutta Italia è stato concesso il disco verde a una sola azienda: in lista d'attesa ce ne sono 50) e il vincolo del tnt meltblown non è superabile. Perciò, niente materiali equivalenti.

E le mascherine - chirurgiche e non solo - per tutto il resto della cittadinanza? L'articolo 16 del Cura Italia è di manica larga: «Gli individui presenti sull'intero territorio nazionale sono autorizzati all'utilizzo di mascherine filtranti prive del marchio Ce e prodotte in deroga alle vigenti norme sull'immissione in commercio».

Le aziende, anche pugliesi, potrebbero allora produrre quantomeno le mascherine dell'articolo 16. Per lanciarsi sulla filiera però occorrono i committenti e certezze su riconversione e futuro. Che al momento non ci sono. Riecheggiano le parole - semplici e spietate, una settimana fa - di Romano Prodi: «Le imprese italiane hanno smesso di fabbricare mascherine. Il governo non ci ha pensato, nessuno ci ha pensato. Non stupiamoci se mancano: non ci siamo preparati alle evenienze».

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