Lo capì subito che la posta in gioco era la vita. La sua, ma soprattutto quella dei due gemellini di tre anni che gli stavano accanto. Una sola scialuppa. Un fiume di gente che voleva salvarsi. E la faccia da “angelo” di un ragazzo che non sapeva nuotare e che accettò di morire per salvare quattro vite: mamma, papà, figlioletti. Il fotogramma del ragazzo magrolino, con i lunghi capelli mossi e la barba, è rimasto sempre nitido nei ricordi di chi gli deve la vita. Il terrore, la voglia di buttarsi tutto alle spalle, non lo hanno sgualcito. Per una intera famiglia di Palermo, è il volto di un eroe: Giuseppe Girolamo, musicista 30enne di Alberobello, vittima del naufragio della nave Concordia. Vittima che avrebbe potuto sgomitare o far finta di non vedere, ma scelse consapevolmente di fare un passo indietro: «Salite voi».
I ricordi indelebili
A raccontare, ora, è Antonella Bologna, palermitana, superstite del disastro che risale alla sera del 13 gennaio 2012, a largo dell’isola del Giglio, in Toscana. Morirono 32 persone, Antonella riuscì a salvare i suoi figlioletti che allora avevano appena 3 anni e mezzo.
Il giovane era il componente di una band musicale che suonava sulle navi da crociera e in quel periodo proprio sulla Concordia, scherzo del destino. Era lì per lavoro, non per diletto. Da quel giorno la storia è stata raccontata decine di volte. Tanti attestati alla memoria di Giuseppe, il cui gesto ha continuato a diffondere dolcezza anche a distanza di anni.
«Lo ricordo benissimo – ha proseguito Antonella - era un ragazzo alto, magro, vestito di nero, con la barbetta: un bel ragazzo. È lui, l’ho riconosciuto dalle foto. Non mi volevano far salire sulla scialuppa – prosegue il racconto drammatico - nonostante avessi i bambini (i figli gemelli, ndr). Avevano solo 3 anni e mezzo, una cosa atroce. Abbiamo visto veramente la morte con gli occhi. Quando ho urlato chiedendo di salire lui ha detto “venga, venga” e ci ha fatto entrare nella terza scialuppa, prima mio marito con il primo bambino, poi io con l’altro. Lui non è salito».
Gli attimi terribili
La narrazione del salvataggio, della lotta per la sopravvivenza che si attivò dopo la notizia dell’emergenza, dello scontro con gli scogli dell’enorme hotel navigante, è scandita da alcuni capitoli che sono passati alla storia. Quel “salga a bordo, cazzo” urlato al telefono dall’ufficiale della Capitaneria di porto, Gregorio De Falco al comandante Francesco Schettino, è il simbolo del dramma dell’Isola del Giglio. La conversazione è stata riascoltata infinite volte: durante le indagini, i processi, le attività tecniche eseguite per comprendere se le manovre furono regolari, se la gigantesca macchina dei soccorsi fu gestita nel migliore dei modi. Se le 32 vittime fra le 4.229 persone a bordo, membri dell’equipaggio inclusi, potevano essere salvate. Due lustri dopo, restano le ferite mai rimarginate per chi nell’arcipelago toscano perse affetti cari, ma anche per quanti scamparono al peggio. Incubi che hanno necessitato supporto psicologico e silenzio per rielaborare.
Testimonianze che danno conforto e speranza. Ci furono scampoli di umanità in un delirio collettivo dovuto a una situazione estrema. Giuseppe era un batterista innamorato della musica. In realtà era un polistrumentista che si era diplomato al liceo classico e poi aveva studiato al conservatorio. Per seguire la sua vocazione aveva deciso di lasciare il suo paesello famoso nel mondo per i trulli, e andare in giro. Era il suo primo impiego su una nave da crociera, con la band Dee Dee Smith. Si era imbarcato il 4 dicembre, poco più di un mese prima della strage. Il suo corpo fu trovato due mesi dopo il naufragio. Era adagiato sul ponte 4. Indossava il giubbotto di salvataggio. L’ultima volta i suoi amici e colleghi lo avevano visto proprio lì, scendere dalla barchetta dai posti limitati che lo avrebbe condotto a riva, per fare posto ad altri. La scialuppa lo avrebbe portato a riva. A casa. Gli amici non si erano dati per vinti, sin dai primi istanti. Avevano tappezzato il Giglio di foto e volantini, sperando che fosse ancora vivo. Disorientato, perso. Non andò così. La procura di Grosseto diede la notizia, dopo il riconoscimento.
La proposta della medaglia
Per Antonella è stato difficile ripercorrere quegli istanti, ricordare, rievocare. «Ci ha aiutato, poi è sparito». I mesi successivi sono stati complicati per tutti, nel tentativo di lasciarsi alle spalle lo choc e di trovare le parole per confortare i due bambini ancora molto piccoli ma già in grado di comprendere l’accaduto. Qualche tempo dopo è bastata una foto a far riemergere ogni memoria e i sentimenti di gratitudine. Antonella da allora si batte perché il musicista eroe possa ottenere la medaglia al valore civile che merita. E’ stata richiesta più volte dal sindaco di Alberobello con lettere inviate al Ministero dell’Interno, alla Presidenza del Consiglio, alla Presidenza della Repubblica e alla Prefettura di Bari. Lei ha fornito tutta la documentazione necessaria, ha formalizzato la ricostruzione, riconoscendo senza alcun tentennamento il suo “angelo”. Dieci anni sono trascorsi. Ancora, nulla.