Capaci, parla Violante: «Rapporti mafia-democrazia, ora c'è più consapevolezza. Ma il senso civico sia di tutti»

Capaci, parla Violante: «Rapporti mafia-democrazia, ora c'è più consapevolezza. Ma il senso civico sia di tutti»
di Francesco G.GIOFFREDI
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Lunedì 23 Maggio 2022, 14:55 - Ultimo aggiornamento: 17:15

«Più consapevolezza», «più strumenti investigativi», più maturità e profondità nella lotta alla mafia: l'eredità di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e del loro sacrificio è un lascito prezioso. «Ma il terreno va sempre coltivato e concimato», innanzitutto in chiave sociale, avverte Luciano Violante. Barese, magistrato, presidente della Commissione antimafia proprio in quel 1992 e poi presidente della Camera, smina il campo dalla retorica e va al cuore del dibattito.
Quello della strage di Capaci è uno degli anniversari più vividi della storia repubblicana, per prossimità temporale, ma anche per il carico di segni, significati e attualità. Ma riusciamo ancora a cogliere quella lezione? E come siamo cambiati?
«Come in tutti gli anniversari, bisognerebbe evitare la retorica, sempre alle porte in queste occasioni. Le eredità più significative sono la consapevolezza nazionale dei rapporti tra mafia e democrazia; l'efficace riorganizzazione del sistema di risposta istituzionale, giudiziaria, di polizia e amministrativa; i nuovi metodi di lavoro, e mi riferisco in particolare alle collaborazioni tra Procure. Molti mutamenti positivi, maggiore consapevolezza civile e riassetto istituzionale. Non siamo ancora riusciti, tuttavia, ad andare fino in fondo al fenomeno, ma è un problema non solo italiano. Le Monde, poche settimane fa, ha pubblicato un fascicolo speciale di 100 pagine sulle mafie nel mondo. Queste organizzazioni tendono a controllare processi economici e dimensioni pubbliche, perciò tendono ad essere presenti dovunque sia possibile fare affari».


La mafia assume ormai diverse posture e fisionomie: rare la manifestazioni più violente, intatta o maggiore la capacità di infiltrarsi in qualsiasi snodo vitale della società e del tessuto istituzionale ed economico. Più silenziosa, ma altrettanto pericolosa?
«Le attuali tecnologie di indagine sono molto sofisticate, tali da rendere più complesso guadagnare l'impunità per gli omicidii, il che disincentiva questo tipo di delitti. Inoltre, l'attacco eclatante è sempre stato considerato soprattutto da Cosa Nostra e Ndrangheta un fatto eccezionale, quando il convincimento e l'intimidazione non sono serviti.

Infine è in campo ormai la terza generazione di mafia, spesso apparentemente stimati e stimabili professionisti impegnati nella vita pubblica e nelle professioni, che tendono alla mimetizzazione».

C'è il rischio di percepire un ridimensionamento del fenomeno mafioso, che può comportare un abbassamento della guardia?
«Non possiamo chiedere al cittadino di stare in guardia per 30 anni di seguito. Ma certo non deve esserci abbassamento dell'attenzione da parte degli organi investigativi. Non basta però l'attività distruttiva, occorre anche quella ricostruttiva. Se da un terreno incoltivato tiriamo via tutti i sassi, non otterremo miracolosamente i frutti: bisogna coltivare, seminare, concimare. Ecco, è sul piano della ricostruzione che non abbiamo fatto abbastanza».

E da dove occorre ricominciare?
«È centrale il ruolo della scuola e degli insegnanti, fondamentali in una società democratica perché trasmettono i valori civili e garantiscono la continuità tra generazioni. Ma l'insegnante è in una situazione drammatica, perché deve trasmettere valori di una società che non ne riconosce il ruolo. Il venir meno della consapevolezza che la democrazia va curata ha comportato l'abbandono di alcuni gangli fondamentali».

Presidente, avvertiva il rischio della demagogia: nelle commemorazioni il peggior nemico sono l'eccesso di retorica o, in questo caso, i professionisti dell'antimafia.
«Viene fuori da molte inchieste e processi: i comportamenti mafiosi vengono dissimulati spesso sotto la bandiera dell'antimafia. Quando vedo o sento dichiarazioni combattentistiche, alzo le antenne... Può trattarsi di ingenuo entusiasmo, che va solo corretto, oppure di dissimulazione, che va combattuta».

Dicevamo della maggiore consapevolezza istituzionale. Come è cambiata la percezione della mafia in 30 anni?
«Le faccio un esempio. Poco prima delle stragi, venne intervistato un ministro dell'Interno da una brava giornalista del Tg3, che chiese se ci fossero rapporti tra mafia e politica: il ministro rispose questa è una provocazione, girò le spalle e andò via. Oggi una cosa del genere non potrebbe mai accadere».

E la magistratura, in 30 anni, che sentiero ha imboccato? È lunga la scia di scandali, inchieste sulle toghe, dibattiti sulla questione morale. E i tentativi di riforma si susseguono.
«La magistratura si è molto professionalizzata, innanzitutto, grazie a un'opera di acculturazione, comune anche delle forze di polizia. Poi ci sono i problemi interni, che sono altra cosa: si è manifestata una grave questione morale, che può essere risolta solo dalla magistratura stessa, attraverso nuovi comportamenti, non dalle leggi. Per fortuna molti giovani, e meno giovani, magistrati si stanno ponendo il problema della ricostruzione di un'identità professionale: il magistrato come intellettuale del diritto, la magistratura come servizio. Nell'amministrazione della giustizia sono presenti due dimensioni, quella del potere e quella del servizio: ecco, ho l'impressione che negli ultimi trent'anni anni sia progressivamente prevalsa la prima».

Il tutto condito da un eccesso di carrierismo.
«Penso soprattutto al carrierismo mediatico, cioè all'intreccio anomalo tra singoli giornalisti e singoli magistrati delle Procure. Il carrierismo professionale temo che comincerà con questa riforma; l'errore è guardare al lavoro come produzione meccanica, senza considerarne la complessità e senza valutare le ragioni dell'inefficienza».
 

L'eredità di Falcone e Borsellino è stata debitamente raccolta dalla magistratura?
«Grazie al lavoro di Falcone e Borsellino è emersa l'importanza delle indagini patrimoniali, sistematiche e correlate con dati: fattori professionali entrati nel profondo della cultura investigativa. Ma voglio sottolineare che in quegli attentati morirono anche gli agenti della scorta, che sapevano benissimo di poter essere uccisi e sapevano che per loro non ci sarebbe stata la stessa memoria dedicata ai due magistrati. Lo hanno fatto egualmente, è un fatto di vitale importanza, perché una democrazia va avanti sulle gambe degli umili».

Lei è stato nominato presidente della Commissione parlamentare antimafia proprio nel settembre 1992: fu in quella sede che, anche con l'ascolto dei pentiti, fu analizzato il rapporto tra mafia e politica. Come venne accolta questa dirompente novità?
«Affrontammo per la prima volta il rapporto tra mafia e politica, producemmo anche un complesso rapporto, votato quasi all'unanimità, che segnò una svolta interpretativa nella mafia. Non era un documento favorevole ai tradizionali partiti di governo e alla Dc in particolare, ma ci fu grande coraggio da parte degli esponenti democristiani, dopo una discussione intensa, nel votare a favore: fu un atto di onestà e rigore».

L'escalation mafiosa è cronologicamente intrecciata con la fine della Prima Repubblica: cambiava il Paese. Quanto ogni filo era collegato all'altro?
«C'è stato un rapporto tra le cose. Dopo la caduta del Muro di Berlino, venne meno la funzione di diga anticomunista dei tradizionali partiti di governo: non c'era più bisogno di finanziarli e gli imprenditori cominciarono a denunciare di essere stati costretti a farlo. Nel 90 ci sono poi i primi passi di Maastricht e si avvia la fine della stagione dei bilanci allegri; nel 91 c'è il primo referendum sulla preferenza unica, che sconfessa tutti i partiti di governo, contrari al referendum; nel 92 a gennaio la Cassazione conferma le condanne del maxiprocesso, a febbraio arrivano i primi arresti di Tangentopoli, poi verrà ucciso Lima e quindi le due stragi. Alla vecchia classe dirigente la mafia diceva: non servite più, sta cambiando il mondo: faceva parte tutto di una svolta e di un clima».

In quel tratto finale di vita, Falcone era davvero così isolato come alcune ricostruzioni raccontano? Le tensioni nel Csm, la freddezza di una parte della sinistra...
«Nel Csm i due componenti comunisti, Brutti e Gomez de Ayala, votarono a favore di Falcone, perché era giusto così. L'isolamento avvenne per invidia e per timore. Era un giudice conosciuto in tutto il mondo, da tutti stimato, e questo suscitava fastidio nei colleghi. Basti leggere le carte del dibattito al Csm sulla vicenda Falcone per captare il clima: la gran parte della magistratura era contro di lui. Nella politica chi aveva avuto rapporti con la mafia ne aveva timore».

Falcone e Borsellino avrebbero potuto indicare, negli anni, quali linee evolutive avrebbe preso la mafia. Erano due morti prevedibili ed evitabili?
«Potevano capire più e prima degli altri quali sarebbero stati i nuovi alleati della mafia. Le morti erano certamente previste. Ma il livello di protezione garantito a entrambi era il più alto allora possibile».

Le parole della politica sono spesso imbevute di retorica, quando si parla di lotta alla mafia. Ma si è fatto e si fa abbastanza?
«Le giro la domanda: i cittadini fanno abbastanza? Non possiamo scaricare tutto sulla politica, anche i cittadini hanno il loro compito e le loro responsabilità nella difesa della democrazia».

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