L'intervista/Boccia, Confindustria: per il Sud no a politiche ad hoc, avanti con misure nazionali potenziate e più efficaci

L'intervista/Boccia, Confindustria: per il Sud no a politiche ad hoc, avanti con misure nazionali potenziate e più efficaci
di Francesco G. GIOFFREDI
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Venerdì 17 Febbraio 2017, 11:56 - Ultimo aggiornamento: 13:27

La ripresa a strappi e poco omogenea, trainata da percentuali troppo timide, contenute e altalenanti. E poi la cassetta degli attrezzi da arricchire e diversificare, innanzitutto in termini di politiche pubbliche: incentivi, infrastrutture, leva fiscale. Contenendo l’emorragia di imprese, perché l’ombra della fuga all’estero è sempre incombente; e provando ad arginare l’ondata protezionistica internazionale, che può sgretolare l’export italiano. Il quadro è questo, al Sud l’effetto moltiplicatore fa il resto: Vincenzo Boccia, presidente nazionale di Confindustria, lo sa bene e l’analisi parte da qui. Oggi sarà a Lecce, e a Quotidiano spiega: «Al Mezzogiorno non servono politiche o strumenti speciali. Serve potenziare e rendere più efficaci gli strumenti che già esistono».
L’Ocse intanto ritocca al rialzo le stime sul Pil italiano per il 2017. Ma l’Italia è ancora “convalescente”: l’invito dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico è di potenziare gli investimenti pubblici, crollati del 30% dall’inizio della grande crisi. Ritiene ci sia stata una contrazione troppo forte, superiore a quanto fisiologicamente indotto dalla crisi?
«Si tratta di una ripresa ancora troppo modesta e fragile se paragonata al resto dell’Europa. Ci sono segnali di inversione di tendenza: la produzione industriale in lieve, ma costante aumento, la fiducia delle imprese che è in crescita, i dati confortanti sull’export. C’è un segnale positivo anche sugli investimenti, che con la crisi hanno subìto un tracollo, dovuto anche all’incertezza e alla sfiducia, che sono fattori determinanti. Negli ultimi mesi, grazie ad alcune misure predisposte dal Governo come l’iperammortamento, il superammortamento, il rafforzamento del credito d’imposta per la ricerca assistiamo a una ripresa degli investimenti. Siamo ottimisti, come imprenditori dobbiamo esserlo per forza».
Il Jobs Act è bersaglio di continue critiche. Valutandolo in un’ottica strutturale e futura, ci sono benefici reali e duraturi che potrà generare per le imprese e il mercato del lavoro, soprattutto per i giovani?
«Gli effetti delle misure vanno valutati nel medio periodo. Bisogna ritrovare la dimensione della pazienza. Non possiamo continuare a fare e disfare riforme prima ancora di averne valutato gli effetti. Questo produce solo ulteriore incertezza, che di certo non fa aumentare l’occupazione. Il Jobs Act ha dato nel breve indubbi effetti positivi. Certamente, sono possibili correzioni e miglioramenti. Soprattutto per quanto riguarda i giovani si può ragionare di ulteriori passi che permettano l’inclusione nel mercato del lavoro. È questa la vera grande sfida dei prossimi anni».
Torna di moda il protezionismo: l’export italiano, che pure mostra timidi segnali di rinascita, è a rischio?
«Il protezionismo è un rischio enorme per l’Europa. Soffiano pericolosi venti nazionalistici, ma se pensiamo di reagire chiudendoci abbiamo perso la battaglia prima di iniziarla. Soprattutto, perché combattiamo contro dei giganti e da soli, come singoli Stati, non ce la possiamo fare. Mercoledì, il Parlamento Ue ha approvato il Ceta, il trattato di libero scambio con il Canada, che avrà ricadute positive per l’export italiano e per tutta l’Europa. Ecco, è questa la risposta giusta alle politiche protezionistiche. Una risposta che deve venire dall’Europa: occorre seriamente riflettere sul nostro futuro e su dove vogliamo andare. Certamente serve un cambiamento».
Il credito d’imposta “potenziato” al Sud è sufficiente per riattivare investimenti e occupazione?
«L’approvazione delle modifiche al credito d’imposta per gli investimenti nel Mezzogiorno è un passaggio di grande importanza per consolidare i segnali di ripartenza. Le modifiche consentono di sfruttare tutti gli spazi e le opportunità offerti dalle regole europee, superando i vincoli che ne avevano condizionato l’utilizzo nei primi mesi di funzionamento. Va dato atto al Governo di aver sostenuto una revisione dello strumento in linea con le aspettative e le proposte delle imprese, e al Parlamento, approvando le modifiche, di averne compreso le grandi potenzialità per attrarre nuovi investimenti nelle regioni del Sud».
Al Mezzogiorno però la crisi ha messo il turbo e ha scatenato conseguenze drammatiche. Il governo Renzi ha sottoscritto dei Patti con le Regioni per spendere meglio, più rapidamente e con una regia centrale le risorse, ora c’è anche un ministero ad hoc. Basterà o serve dell’altro? E cosa? Questione solo di spesa e coordinamento, oppure la medicina per il Sud sono una politica d’ampio respiro e strumenti speciali?
«Al Sud non servono politiche o strumenti speciali. Serve potenziare e rendere più efficaci gli strumenti che già esistono. Diciamo sempre che non esiste una questione meridionale, esiste una questione nazionale che s’identifica con la questione industriale, all’interno della quale il Mezzogiorno può rappresentare un traino per tutto il Paese. Il Sud può essere la nostra “zona emergente”, il nostro trampolino, anche e soprattutto grazie ai suoi giovani. Per quanto riguarda il Masterplan per il Sud, abbiamo giudicato positivamente il metodo. Ma ora è necessario partire con l’attuazione dei progetti e con il controllo delle risorse, perché i programmi non rimangano lettera morta. Proprio la settimana scorsa abbiamo presentato un documento comune con Cgil, Cisl e Uil».
Il Mezzogiorno paga tuttavia il prezzo di delocalizzazioni spesso selvagge. In tal senso, e al netto dei problemi fiscali e burocratici, c’è una specifica responsabilità delle imprese, dal tessile all’aerospazio.
«C’è un problema fisiologico che riguarda le imprese. La crisi purtroppo ha avviato una selezione naturale e oggi siamo in una situazione in cui un 20% di imprese si è consolidato e va avanti spedito, un altro 20% purtroppo è fuori mercato, ma un 60%, la maggioranza, è nel mezzo. Nei prossimi anni si deciderà la loro sorte e questo dipenderà dalle scelte che faremo ora. Dipenderà da fattori di contesto come l’accesso al credito e la semplificazione burocratica, ma dipenderà anche dalle imprese stesse, da come sapranno riconvertirsi e innovare processi e prodotti. Confindustria dovrà aiutarle in questo percorso di crescita e rafforzamento della loro competitività».
La Puglia rappresenta un Sud diverso? Lei riscontra una maggiore vivacità economica? Ed eventualmente quali sono in tal senso i fattori chiave? Al Sud spesso il tessuto produttivo è debole, perché poggia su pilastri asimmetrici quali la grande industria e la piccola impresa turistico-culturale.
«La Puglia è cresciuta moltissimo e ha evidenziato, è vero, una grande vivacità economica e soprattutto un miglioramento della qualità della vita. In parte, è dovuto al fatto di essersi concentrati su alcuni driver specifici come il turismo di qualità, l’energia, la farmaceutica e alcune produzioni ad alto valore aggiunto».
Ma la crisi, anche qui, ha dispiegato i suoi effetti.
«Certamente la crisi anche qui ha colpito durissimo, specie in alcuni comparti tradizionali del manifatturiero come appunto il tessile e l’abbigliamento o il mobile, che hanno risentito del calo della domanda interna e del freno all’export. Resta valido quanto ho detto prima sulla necessità di avviare un percorso di trasformazione industriale che deve conservare il buono, ma puntando all’innovazione e al cambiamento. Perché non possiamo pensare di perdere pezzi importanti della nostra industria, questo voglio dirlo con chiarezza. Bisogna però affrontare anche i problemi di contesto che sono enormi. Mi riferisco in particolare per la vostra regione alla dotazione infrastrutturale».
Capitolo Ilva: alla luce del momentaneo stop al rientro degli 1,3 miliardi dei Riva, teme brusche frenate nell’iter di cessione? Sullo sfondo resta sempre vivo il dibattito sulla decarbonizzazione, sulla riconversione a gas del ciclo produttivo e più in generale sulla necessità di ambientalizzare gli impianti.
«L’Ilva continua a rappresentare un asset strategico per il Mezzogiorno e per tutta l’industria italiana e l’intera economia nazionale. È il motivo per cui Confindustria ha svolto, nei confronti dei diversi Governi chiamati ad affrontare l’emergenza, un ruolo di pungolo costante, contribuendo a far sì che si individuassero soluzioni in grado di contemperare il rispetto dell’ambiente e della salute con le istanze occupazionali e il principio di libera iniziativa economica.

L’auspicio è che la recente decisione della magistratura non comporti un allungamento dei tempi di “restituzione” al mercato dell’azienda, che è quanto mai necessario per assicurare l’efficienza e la continuità industriale. Inoltre, non è mai mancata - e continua anche in questi giorni - la nostra azione a sostegno delle imprese dell’indotto, le cui ragioni creditorie sono state fortemente penalizzate per effetto della crisi aziendale e del successivo commissariamento».

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