Il Sud, la Puglia e il futuro/ Ma alla voce "rischio" non c'è solo l'autonomia. Appunti per il nuovo anno

Consiglio dei ministri governo Meloni
Consiglio dei ministri governo Meloni
di Rosario TORNESELLO
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Sabato 31 Dicembre 2022, 14:49 - Ultimo aggiornamento: 21 Gennaio, 14:50

Su una parola (ancora una) si prova a scrivere il futuro, su altre due (tra le tante) dobbiamo valutare il passato (perché il futuro sia un’opportunità e non una iattura). La fine dell’anno – di un anno segnato dalle sciagure, la guerra per dire, ma anche le crisi correlate, tutte capaci di oscurare le molte cose di cui pure gioire e andare fieri – porta in dote il rischio evidente di una frattura nel Paese, per un disegno di legge sul regionalismo differenziato che, vuoi per la firma (Calderoli), vuoi per i proponenti (Lombardia e Veneto in primis), non lascia sereni al Sud. Autonomia, appunto, è la prima parola. Ma le altre due, su cui rileggere la propria storia per riscrivere il proprio destino, non sono meno importanti. E anche queste, ma per cause endogene, e perciò tutte interne al perimetro di riferimento geografico e culturale, non lasciano meno sereni, se si è capaci di una minima autocritica, e chissà quanta ce ne vorrebbe invece. Efficienza e responsabilità, eccole, da declinare in vario modo: capacità di fare, voglia di costruire, impegno a non deragliare (sconfinando come sempre nell’interesse personale, per potere o smodata avidità). No indolenza, no fatalismo, no assistenzialismo. No grazie.

Al di fuori di un ragionamento rigoroso sui livelli essenziali delle prestazioni (Lep) nei vari ambiti, e sanitario innanzitutto, da garantire sempre e comunque, l’autonomia rischia di procurare danni seri e gravi, considerata la curva del tempo necessaria per ovviare agli eventuali disservizi causati da interventi poco attenti. E quello che il governo si appresta a varare (con incertezza sui tempi, ben oltre l’imperatività dei proclami) sembra avere tutti i presupposti per esserlo. Intanto perché la bozza di legge – da quanto trapelato – si avvita sulle risorse necessarie per definire i Lep, col rischio di rimandare alla spesa storica per la valutazione dei fabbisogni nei vari territori, un accidente facilmente traducibile: chi ha avuto di più, su parametri altamente opinabili, continuerà ad avere di più. Inutile dire a vantaggio di chi e con quali prospettive di ulteriore ampliamento del gap. E poi perché, nella stesura licenziata dal ministro, si salta a piè pari il confronto con le Regioni – rimandato a una seconda fase – per un contemperamento delle diverse, e a volte opposte, esigenze. La Costituzione riconosce e favorisce le autonomie locali, e ci mancherebbe, ma prima ancora ribadisce che l’Italia è una e indivisibile, non “spacchettabile” in differenti livelli. Né di opportunità né di chance. Per nessuno.

Sarebbe il caso di innestare sulla riflessione, oltre al dato della spesa consolidata, anche quello dell’origine storica delle differenze e dei ritardi, non necessariamente riconducibili alla laboriosità di alcune popolazioni o al malinteso senso della legalità di altre. Per non risalire troppo indietro nel tempo, e di motivi ce ne sarebbero, basterebbe citare la riflessione di pochi giorni fa su queste pagine di Guglielmo Forges Davanzati per ricordare come la divergenza Nord-Sud si manifesti negli anni successivi all’Unità d’Italia non per la cacciata dei Borbone ma come effetto diretto dell’ampliamento della domanda interna del Nord Europa per via della rivoluzione industriale in Germania, a tutto vantaggio del Settentrione d’Italia, meglio posizionato per logistica e trasporti (logistica e trasporti: dice niente quando si parla di ritardi?). Ci sarebbe da aggiungere la coeva battaglia doganale dell’Italia con la Francia a tutela della produzione industriale del Nord, con effetto ritorsivo a svantaggio delle produzioni agricole del Sud, per ulteriore chiarezza.

Ma faremmo notte (e sarebbero un altro mestiere e un differente contesto).

Eppure – nonostante tutto, e anzi proprio per questi divari che limitano e ingabbiano – c’è una ricchezza enorme che ogni anno il Mezzogiorno riversa nelle casse delle aree del Settentrione. Due esempi su tutti, lampanti e facilmente esperibili da chiunque: l’istruzione e la salute. A quanto ammonta il fiume di denaro speso per i ragazzi che si spostano altrove per ragioni di studio, secondo un flusso chiaramente unidirezionale da sud a nord? E a quanto la spesa per cure mediche, interventi e visite in strutture specialistiche, con annessi vitto e alloggio, milioni su milioni incanalati lungo la stessa rotta e con identico verso? Quanto costa aver negato lo sviluppo a comparti strategici, esposti ora al rischio di una regionalizzazione dai contorni fumosi ma dall’imprinting fin troppo marcato? E per passare alle altre due parole di questo ragionamento, quanto peso hanno in questo meccanismo degenerativo i nostri livelli di (in)efficienza e di (ir)responsabilità, ma anche di (dis)organizzazione e di (in)competenza? Quando usciremo, insomma, dalla sindrome di Calimero per poter fare quello che dobbiamo fare, e bene?

C’è un Sud che dà punti a tutti per intraprendenza e voglia di operare, per intelligenza e lungimiranza. Un Sud produttivo che sa muoversi sui mercati, intercettare finanziamenti, sviluppare prodotti e competenze, porsi all’attenzione per capacità di inventiva e di progettazione. Sono le imprese, le industrie, gli artigiani, gli artisti, gli uomini che hanno aperto strade, trovato soluzioni, proposto idee, conquistato posizioni dominanti. Nonostante la mancanza di infrastrutture, la lentezza nei collegamenti, la farraginosità delle procedure. E nonostante, ultimo ma non ultimo, la qualità delle istituzioni. Lo ha ricordato pochi giorni fa Giuseppe Coco dalle pagine del “Corriere del Mezzogiorno”, ragionando sulle differenti risposte che le politiche di coesione hanno in alcuni Paesi rispetto ad altri: la spiegazione – detto citando la Commissione europea – è nella qualità istituzionale, bassissima al Sud. Una spirale in cui tutto si tiene: scarsi livelli di istruzione (e di lettura), inadeguata selezione delle classi dirigenti, fenomeni degenerativi a vari livelli, perdita di fiducia, denatalità, impoverimento, attesa del messia o della manna dal cielo. Dove e come interrompere questo circolo vizioso?

Anni fa Lecce - ma valga solo a mo’ di esempio - segnò la sua rinascita per una convergenza di fattori concomitanti, tutt’altro che fortuiti: magistratura attenta a contenere e stroncare il fenomeno pervasivo della Sacra corona unita, piani Urban per la riqualificazione della città e del suo centro storico, varo di nuove facoltà – su tutte Economia e Giurisprudenza – per giovani altrimenti destinati a emigrare, slogan per sdoganare una parola e un territorio (Salento d’amare, stampigliato sulle maglie della squadra di calcio schierata in serie A), commercianti pronti a creare e alimentare un movimento capace di imporsi come marchio di qualità (anche troppo): la movida. Istituzioni, politica, imprese, giovani, associazioni, commercianti, artigiani, scuole, università: tutti insieme per segnare la svolta e consegnare il territorio a un altro destino, diverso dalla marginalità in cui annaspava nonostante i suoi tesori e la sua (neppure tanto incontaminata) bellezza. Erano i primi anni Novanta. Sembra passata un’eternità.
Buon anno a tutti.
 

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