L'intervista a Decaro: «Autonomia differenziata, ecco i paletti. E su Lep e “riequilibrio”
c’è l’esempio dei Comuni»

Il presidente Anci e sindaco di Bari spiega il punto di vista delle fasce tricolori: «Autonomia: questioni di metodo e merito da rivedere. Noi stiamo già superando ogni anno la spesa storica»

L'intervista a Decaro: «Autonomia differenziata, ecco i paletti. E su Lep e “riequilibrio” c’è l’esempio dei Comuni»
di Francesco G. GIOFFREDI
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Domenica 5 Marzo 2023, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 17:15

“Preoccupazioni” sull’Autonomia differenziata e non ancora una bocciatura. Antonio Decaro, ma l’Anci - che lei presiede - in un documento consegnato al governo pone l’accento sui limiti del testo di legge Calderoli: non deve essere stato semplice mettere d’accordo 8mila sindaci.
«No: ognuno su quel tema ha una propria posizione, che spesso non dipende nemmeno dalla provenienza politica. Ma ci sono oggettive questioni di metodo, di merito e di percorso che ci ha visti coinvolti solo nell’ultima settimana. Il provvedimento è tornato al Consiglio dei ministri e attendiamo le determinazioni. Le preoccupazioni sono legate al fatto che alle Regioni vengono devolute funzioni non solo legislative ma anche amministrative e perciò proprie dei Comuni. Ci sono preoccupazioni sulla determinazione e sul finanziamento dei Livelli essenziali di prestazione. Non si capisce se le risorse per i Lep saranno messe a disposizione prima delle intese Stato-Regione, e sembrerebbe finanziata solo la parte dei Lep delle funzioni trasferite alle Regioni e non quelle oggi in carico ai Comuni».
Per esempio?
«La scuola: le funzioni che potrebbero essere trasferite alla singola Regione potrebbero essere ulteriormente finanziate, ma nulla si dice sulla parte di Lep delle funzioni svolte dai Comuni come servizio mensa, trasporto scolastico e assistenza specialistica. Cosa accadrà?».
Si rischia di scatenare un conflitto tra Regioni e Comuni, alla lunga?
«Le Regioni dovrebbero svolgere solo funzioni di legislazione e programmazione, i Comuni e le Province di amministrazione e gestione: ci spaventa che queste ultime siano affidate alle Regioni che poi potrebbero di volta in volta decidere di trasferirle a Comuni o Province o trattenerle, con sovrapposizioni e moltiplicazione di enti e agenzie. È una prospettiva che va contro l’articolo 1 della stessa legge, che punta a semplificare e sburocratizzare».
Dopodiché c’è il punto di vista “personale”: anche lei ritiene l’autonomia un pericolo per il Sud?
«Io ero già contrario alla riforma del Titolo V voluta dai governi di centrosinistra, così come all’iter dell’autonomia di tutti gli ultimi governi».
Ci sono state anche Regioni di centrosinistra che hanno attivato negli anni il percorso dell’autonomia differenziata.
«La strada è stata aperta dal centrosinistra col Titolo V, una riforma all’epoca voluta anche da chi oggi è contrario all’autonomia. L’impostazione di quella riforma mi sembrava in contrasto con i principi fondamentali della Costituzione».
Il punto è anche la perequazione a tutela dei territori con minore capacità fiscale: i Comuni stanno mettendo in campo un meccanismo di questo tipo.
«Da sei anni, su impulso dell’Anci, stiamo progressivamente superando il meccanismo della spesa storica, aiutando i Comuni che hanno più bisogno secondo un principio di solidarietà. Grazie al sistema perequativo è anche accaduto che grandi Comuni del Sud abbiano aiutato piccole realtà del Nord in montagna o nelle aree interne: ruota tutto sul rapporto tra fabbisogni standard, individuati su alcune funzioni fondamentali, e capacità fiscale dei singoli Comuni. Quest’anno le risorse dello Stato saranno distribuite per il 35% sulla spesa storica e per il 65% con il sistema perequativo: l’obiettivo è arrivare al 100% di perequazione entro il 2030, e ci arriveremo».
È un meccanismo che potrebbe essere introdotto per temperare l’autonomia differenziata?
«Le Regioni dovevano già farlo da anni, ma non è mai stato applicato. Noi Comuni siamo l’unico comparto che ha superato la spesa storica, le faccio l’esempio degli asili nido: nel 2027 avremo 1,1 miliardi in più all’anno, che distribuiremo in base al fabbisogno».
I progetti del Pnrr sono già al collo di bottiglia dei ritardi e della scarsa capacità progettuale e di spesa? I Comuni combattono continuamente con le carenze di personale.
«Ci è stata data la possibilità di assumere, anche utilizzando le risorse del Pnrr e con procedure semplificate. Sono però assunzioni a tempo determinato fino al 2026: dobbiamo scegliere figure con competenze specifiche, ma senza una prospettiva quei profili non accettano. Si potrebbero comunque prevedere contratti a tempo determinato, ma se il Comune dovesse avere la necessità di assumere personale stabile, potrebbe attingere da quella selezione pubblica».
Ma è sicuro dell’effettiva capacità delle amministrazioni comunali di dare attuazione al Pnrr?
«Anche col blocco del turn over, i Comuni sono storicamente le amministrazioni che spendono il 25% delle risorse disponibili per le opere pubbliche: siamo l’investitore più importante del Paese. Penso anche al Pnrr: c’erano 40 miliardi a disposizione dei Comuni, non solo abbiamo partecipato ai bandi, ma abbiamo presentato progetti per 80 miliardi. Vuol dire che le amministrazioni comunali, tra mille difficoltà, riescono a lavorare».
Il decreto di Raffaele Fitto che riforma la governance del Pnrr e dei fondi di coesione rischia ora di centralizzare eccessivamente la spesa?
«Abbiamo lavorato con lui, chiesto anche chiarimenti e modifiche. All’inizio eravamo spaventati, ma siamo stati comunque rassicurati, e col ministro l’interlocuzione è proficua e quasi quotidiana: ci siamo sentiti venerdì per risolvere un problema di scadenze sulle gare per asili, palestre e scuole. Riteniamo che anche questo decreto non risolva il tema della semplificazione delle procedure autorizzative: Noi chiediamo un’unica conferenza di servizi in maniera analoga a quanto già accade per l’edilizia scolastica».
Sempre che non subentri la cosiddetta “paura della firma”: l’Anci ha chiesto di riformare il reato di abuso d’ufficio. Perché?
«Non abbiamo chiesto certo l’immunità o l’impunità, ma di definire meglio il perimetro delle responsabilità del sindaco, che spesso si ritrova indagato per il solo fatto di essere il sindaco. Come se esistesse il reato di ruolo. Il 97% dei sindaci indagati per abuso d’ufficio o non va a processo o viene assolto: quando firmi ti ritrovi talvolta a scegliere se rischiare una indagine per abuso d’ufficio o per omissione di atti d’ufficio. La norma non ha confini chiari: il ministro è un ex magistrato, il viceministro è un avvocato penalista, chi meglio di loro può pensare a delle modifiche?».
Ma è davvero necessario abbattere il limite dei due mandati per sindaci?
«Abbiamo chiesto di riconoscere il ruolo dei sindaci. In nessun altro Paese europeo esiste il limite di mandato, peraltro i sindaci sono eletti direttamente dai cittadini, non tramite listini bloccati: se un amministratore lavora bene, viene rieletto; altrimenti va a casa. Il sindaco è anche l’unica figura istituzionale che non può candidarsi in Parlamento e non può assumere nessun incarico nei due anni successivi al termine del mandato».
Lei ha duramente criticato la norma regionale che allunga il mandato dei consiglieri di un altro anno in caso di dimissioni del governatore. Ora, dopo la decisione del governo di impugnarla, potrebbe essere corretta. Basterà?
«Il rapporto di fiducia tra eletti ed elettori si alimenta con le elezioni secondo delle regole che non possono essere legate all’interesse del momento o al potente di turno: allungare il mandato in corso equivale a dire che chi detta le regole del gioco non sono più i cittadini, ma i politici. Il Consiglio regionale è nelle condizioni di tornare sui suoi passi. Affidare la soluzione di questa vicenda ai giudici credo sia sbagliato».
Comincia un nuovo corso per il Pd: fioccano gli appelli all’unità, ma c’è il rischio di scadere nel solito gioco di veleni tra correnti?
«Le correnti sono state il male del Pd, in questo congresso quantomeno si sono scomposte. Spero non si ritorni ai vecchi schemi: ora il partito va gestito in modo unitario, l’indirizzo politico spetta alla segretaria. Avremo cinque anni di opposizione per cercare di trovare punti di condivisione col resto del centrosinistra e così provare ad essere uniti alle elezioni, la prossima volta».
Lei ha sostenuto Bonaccini perché in fondo rispecchia la sua visione: riformismo, buona amministrazione, il “fare” sopra ogni cosa. È andata male però.
«Tutti noi amministratori avevamo scelto Stefano proprio per questo: ha dimostrato di essere un buon amministratore, in grado di tenere insieme le esperienze di centrosinistra dell’Emilia Romagna. Guardavamo a lui, insomma, come ideale futuro premier. Gli elettori hanno fatto una scelta diversa, ed è giusto che a guidare il partito sia Elly. Di sicuro è stata una campagna per le primarie elegante nei toni, nessuno voleva spaccare il Pd».
Schlein ha fatto leva soprattutto su identità e principi, ora spetta a voi non disperdere l’anima riformista e pragmatica propria degli amministratori.
«Gli amministratori sono tali perché vincono le elezioni e sanno parlare alle loro comunità. Ora dobbiamo costruire un partito che deve dare risposte ai problemi reali e quotidiani della gente».
Lei è sempre abbottonato su futuro e strategie, ma prima o poi dovrà dirci cosa vuol fare da grande...
«Sono grande da un po’, ora devo fare il sindaco per un anno e mezzo perché ho preso un impegno con i miei cittadini».

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