Autonomia, la bocciatura di Roma: «Vince l'egoismo territoriale e sarà una catastrofe»

La stroncatura del sociologo ed ex direttore del Censis

Giuseppe Roma
Giuseppe Roma
di Paola ANCORA
5 Minuti di Lettura
Venerdì 3 Febbraio 2023, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 13:04

«Quando si realizzarono le Regioni, la destra fece i manifesti dicendo che c’erano voluti 100 anni per fare l’Italia e che si era scelto di smembrarla. La stravaganza della Storia vuole che oggi, invece, sia proprio la destra a promuovere l’Autonomia». Già direttore del Censis, il sociologo e professore Giuseppe Roma boccia in toto il Ddl Calderoli approvato ieri, fra gli applausi, dal Consiglio dei Ministri.

Professore, il federalismo non è un’invenzione di oggi, ma una riforma incompleta che attende da anni di essere perfezionata e messa a terra. Cosa non la convince?
«Qui la toppa è peggio del buco, laddove il “buco” è la riforma costituzionale del Titolo V varata dal centrosinistra con lo scopo di “catturare” i voti dei leghisti, che facevano già il pieno nelle fabbriche.

Ma se ora, a distanza di più di 20 anni, mettiamo una toppa in condizioni completamente diverse, profondamente cambiate, allora ci avviamo alla catastrofe totale».

È molto drastico, non trova?
«Perché ho serie difficoltà a comprendere e acconsentire che alcune Regioni, più di altre, debbano avere poteri in materie come la scuola o la politica estera o energetica quando abbiamo visto cosa è accaduto per la sanità. Durante la pandemia ci siamo salvati soltanto perché è intervenuta la Protezione civile nazionale. Il tema dell’Autonomia va letto e interpretato dal punto di vista dell’efficienza istituzionale».

È innegabile vi sia uno scarto fra l’efficienza dei servizi di alcune regioni del Nord e il Mezzogiorno. Si spieghi meglio.
«Veneto e Lombardia non meritano questa Autonomia. Confondiamo tutti il sistema economico sociale di una regione con l’istituzione regionale. È innegabile, come dice, che la Lombardia sia la regione più produttiva d’Italia, ma la Regione Lombardia negli ultimi 15 anni ha dimostrato di non essere affatto un faro delle istituzioni democratiche. Non ricordo se uno dei presidenti sia ancora in libertà o ancora ai servizi sociali; durante la pandemia mi pare si siano dati il cambio ben tre assessori. Dunque i due piani vanno nettamente distinti e su quello dell’efficienza istituzionale credo ci sia molto da dire».

Si corre il rischio, secondo lei, di una spaccatura fra Nord e Sud del Paese e di un inevitabile aggravamento dei divari già esistenti?
«Ci sono servizi che hanno necessità di un respiro nazionale. Frammentarli significa accentuare le diversità e i divari. Se è vero, per esempio, che la Pubblica amministrazione deve essere più vicina ai cittadini, quando ogni Regione avrà il suo sistema le persone come faranno? È una riforma controproducente, tanto più in questo periodo storico così difficile. Il Mezzogiorno rischia di uscire dall’agenda politica e invece è dove le imprese sono deboli che le istituzioni dovrebbero essere più forti e lo Stato far sentire di più la sua presenza. Dovrebbero reclamare per prime le Regioni del Sud, magari iniziando a collaborare di più fra loro. Ci sono tante cose sulle quali lavorare a livello istituzionale per rendere migliore il Paese intero, ma si deve cambiare prospettiva. Radicalmente».

Professore, è vero anche che l’opposizione al Ddl da parte delle Regioni meridionali non è oggi delle più nette. Qualsiasi presidente vorrebbe per sé maggiori poteri.
«E infatti siamo proprio nel classico caso dell’ingordigia di chi ha pane e non ha denti. Come avviene per i finanziamenti: ci si occupa di prenderli, molto meno di seguirli e farli arrivare dove devono. I presidenti delle Regioni stiano però in campana: rischiano di ingolfarsi con poteri che poi non sapranno gestire».

L’Autonomia ha ormai cominciato il suo percorso. Andrà ora sottoposta alla Conferenza unificata. Che cosa si dovrebbe fare secondo lei? 
«Dovremmo ripensare l’intero modello statuale. Sfido chiunque a dire che i cittadini sono soddisfatti delle istituzioni che abbiamo, anche nel Settentrione. E i disservizi derivano dal fatto che si è cambiato tanto, tutto, senza mai farlo in maniera organica. Abbiamo abolito le Province che però ci sono ancora. Abbiamo assegnato poteri alle Regioni che spesso non li esercitano. Abbiamo creato città metropolitane che sono come le province. Mettiamoci anche che le leggi elettorali cambiano ogni due legislature, che promuoviamo riforme istituzionali che vengono puntualmente bocciate e ora vogliamo anche varare il presidenzialismo. È un meccano che non si regge in piedi, perché non c’è una visione condivisa e di lungo periodo».

Nel Ddl approvato non appare chiaro come sarà modificato il sistema fiscale sulla scorta dell’Autonomia e quale parte del gettito resterà sul territorio delle Regioni autonome. Cosa ne pensa? 
«È gravissimo. La Sicilia è già una Regione autonoma e ha un regime fiscale più forte e favorevole di quello per il quale la Catalogna stava per realizzare la scissione dalla Spagna. Eppure non mi pare che la Regione Sicilia brilli per efficienza. Inoltre in tutti i sistemi democratici esiste un principio: ognuno è tassato in maniera progressiva sulla base di quello che produce e riceve in base alle sue necessità. Se un ricco guadagna 100, paga 10 e trattiene per sé gli altri 90 salta il banco. E vanno a farsi benedire progressione, sussidiarietà, solidarietà».

Eppure la riforma del federalismo cui accenna, datata 2009 e voluta dal ministro leghista, prevedeva il varo dei Livelli essenziali delle prestazioni. Si sono succeduti, da allora, governi di colore diverso. Per responsabilità di chi quella disposizione non è mai stata attuata? 
«Quella riforma non è mai andata a segno perché è troppo ingiusta. Non ha reali ragioni di efficienza da realizzare ed è pura espressione di egoismo territoriale. Sa a cosa serve? Soltanto a maneggiare più soldi e togliere di mezzo le compensazioni fra territori, indispensabili all’unità di un Paese. Dunque qualcosa si dovrà fare. Le Regioni autonome si prendono le risorse? Allora si facessero carico anche del debito pubblico in quota parte del rispettivo Pil regionale. Regionalizziamo anche il debito e vediamo cosa succede». 

© RIPRODUZIONE RISERVATA