Università, Manfredi: «In Italia ancora pochi laureati, ecco il piano per competere in Ue»

Università, Manfredi: «In Italia ancora pochi laureati, ecco il piano per competere in Ue»
di Nando Santonastaso
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Venerdì 14 Agosto 2020, 09:08 - Ultimo aggiornamento: 15 Agosto, 08:25

Equità e competenza, dice Gaetano Manfredi, ministro dell'Università e della Ricerca scientifica, saranno le due parole chiave dell'Italia post epidemia. Un Paese, spiega, che dalla formazione alla ricerca ha assoluto bisogno di mettersi al passo con l'Europa a partire dal numero dei laureati, dal loro inserimento nel mondo del lavoro, dal livello di conoscenze nel campo dell'innovazione. Sono, non a caso, gli obiettivi della proposta che il ministro ha messo a punto e in parte anche formalizzato al Comitato tecnico, coordinato dal collega Enzo Amendola su delega del premier Conte, che ha il compito di definire la proposta italiana per l'accesso al Recovery Fund. «Non ci sono limiti di budget, ogni ministero presenta i suoi progetti che vanno armonizzati poi anche in chiave politica prima di trasmetterli all'Ue», spiega Manfredi. Che, come suol dirsi, si è già portato avanti con il lavoro presentando il Piano nazionale della ricerca, spalmato su sette anni, che ha ambizioni importanti (non solo un aumento significativo delle risorse ma anche un peso sul Pil del Paese maggiore dell'attuale 1,2% e l'assunzione d 6mila ricercatori).
Ma al di là degli annunci, che spazio avrà realmente il suo ministero nel piano italiano per il Recovery Fund?
«Rilevante, senza alcun dubbio. Tra le priorità indicate dall'Europa ci sono temi, dall'innovazione alla formazione, dal digitale alla ricerca, sui quali il mio ministero ha competenze importanti».

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Il Piano nazionale della ricerca è una sorta di assaggio, per così dire, della proposta specifica per il Recovery fund?
«Ci sono due momenti precisi già definiti. Il Piano sulle competenze digitali, che abbiamo messo a punto con il ministro dell'Innovazione e che permetterà di conoscere il reale fabbisogno delle competenze del Paese in questo campo; e, appunto, il Piano della ricerca che ho appena portato alla valutazione pubblica. Abbiamo poi messo a punto un piano per la transizione scuola-università per avere una percentuale di laureati superiore a quella, molto bassa anche in chiave europea, di adesso: ci sono due progetti in cantiere su questo punto. Uno sul diritto allo studio e uno finalizzato a migliorare l'approccio alle attività più professionalizzanti».

È il vecchio ma purtroppo ancora attualissimo tema della distanza tra scuola, università e mondo del lavoro, in sostanza.
«Esattamente. Il mismatch tra competenze dei giovani e richieste del mondo del lavoro non è stato ancora raggiunto. Ma c'è anche l'obiettivo di ampliare l'offerta formativa alle nuove esigenze che stanno emergendo soprattutto nei settori innovativi dove spesso non si riescono a trovare le competenze adatte. Tutto questo farà parte della mia proposta per il Recovery Fund».

Faccia esempi concreti, ministro.
«Vogliamo ampliare la formazione professionalizzante: ciò significherà rafforzare l'offerta degli Its e delle lauree professionalizzanti, invogliando un numero ben più alto di diplomati negli istituti tecnico-professionali a proseguire i loro studi, cosa che oggi avviene molto raramente. E poi vogliamo inserire nel sistema delle lauree universitarie, in modo trasversale, le competenze digitali e green e quelle comunque legate all'economia circolare e alla transizione ecologica. Ma stiamo lavorando anche sul versante della residenzialità degli studenti universitari, con l'aumento ad esempio delle borse di studio per sostenere giovani provenienti da famiglie con bassi redditi. Ma questo servirà anche ad attrarre studenti internazionali nei nostri atenei».

Un suo storico pallino, mi pare.
«Sì, perché è fondamentale accrescere la dimensione internazionale delle nostre università. Penso soprattutto a quelle meridionali e all'enorme bacino degli studenti provenienti dall'Africa, un'opportunità che bisogna cogliere fino in fondo».

Ma quanto la preoccupa, allora, il rischio di un calo di iscrizioni per ragioni economiche soprattutto negli atenei meridionali?
«So che abbiamo fatto un grande lavoro in questi mesi e mi piace ricordare soprattutto lo sforzo per il sostegno al diritto allo studio. Oggi la no tax area che come ministero avevamo posto a un tetto di 20mila euro, è stata innalzata da varie università anche in relazione ai finanziamenti aggiuntivi da noi stanziati. I primi segnali in nostro possesso ci dicono che i ragazzi si stanno avvicinando all'università, ma i dati reali li conosceremo solo a metà ottobre».

Cosa cambierebbe se, malauguratamente, ci fosse una seconda ondata di contagio?
«Ormai tutti i piani per la ripresa delle attività sono pronti e sono molto dettagliati. Ci sarà il 50% di occupazione delle aule per le lezioni mentre il restante 50% degli studenti seguirà i corsi da casa. Sono stati previsti percorsi di entrata e di uscita, regole ferree in materia di prevenzione sanitaria, scaglionamento delle lezioni durante tutta la settimana, sabato compreso, orari più ampi. Tutto un sistema, insomma, che deve ridurre gli assembramenti e che siamo in grado di gestire all'interno delle università».

I veri dubbi riguardano il sistema dei trasporti, dunque, dove i contatti sembrano ancora oggi inevitabili?
«È il vero tema sul quale, peraltro sta già da tempo lavorando il ministero dei Trasporti. È soprattutto per i collegamenti più lunghi che il distanziamento può diventare un problema ma, ripeto, si troverà anche qui una soluzione adeguata. Di sicuro, se ci fosse una seconda ondata e si dovesse ripensare a scenari di lockdown, non saremmo impreparati. Il modello che abbiamo messo in campo sin dall'inizio è blended, cioè misto. Con un grandissimo sforzo delle università e un nostro importante finanziamento, oggi disponiamo di una didattica che si fa sia in presenza sia a distanza, grazie alla digitalizzazione realizzata in tutte le aule. In caso di seconda ondata, si potrà passare dalla presenza alla distanza in tempo reale. Saremo in grado di gestire l'emergenza».

Da cittadino meridionale prima ancora che da ministro, non le dà fastidio che sulla fiscalità di vantaggio al Sud non tutto il Paese sembra essere d'accordo?
«Sono del tutto favorevole ad una politica che rafforzi il Mezzogiorno perché se vogliamo far ripartire l'Italia la strada è obbligata: bisogna far crescere l'area che ne ha la maggiore potenzialità, cioè il Sud. Ma è sbagliato, ancora una volta, vedere in questo una contrapposizione tra Nord e Sud: noi dobbiamo continuare a sostenere il Nord che rappresenta la parte più produttiva del Paese sapendo però che oggi investire sul Mezzogiorno è una scelta nell'interesse di tutta l'Italia. Un Paese più equo e meno diseguale è sicuramente un Paese più forte. E rafforzare le aree deboli non vuol dire limitarsi al Sud: ci sono anche le aree interne, nel Nord come nel Meridione, che hanno bisogno di essere sostenute. Più avremo una crescita uniforme, più il futuro del Paese sarà migliore».
 

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