La crisi Nord Corea/ Gli artigli felpati della Cina di Xi

di Lucia Pozzi
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Giovedì 13 Aprile 2017, 00:09 - Ultimo aggiornamento: 10:41
La partita diplomatica è aperta con Pechino che, suo malgrado, si ritrova a fare l’ago della bilancia. La telefonata di ieri di Xi Jinping a Trump (per una «soluzione con mezzi pacifici») e l’altolà di poche ore dopo a Kim Jong-un attraverso un editoriale sul “Global Times” («evitare errori» con altri test nucleari perché «non resteremo indifferenti al peggioramento delle violazioni delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu») sono i segni apparenti del nuovo ruolo che la Cina si trova costretta a giocare. Quel che si metterà davvero sul piatto e con quali risultati, si scoprirà in futuro. Il punto è che la Cina si trova in una posizione certamente scomoda e delicata, ma anche di forza, ed è evidente che potrà avere successo solo se sarà in grado di gestire proficuamente il proprio ruolo di mediatrice e, allo stesso tempo, di leader al tavolo negoziale che si aprirà con le altre potenze coinvolte.

È interessante l’ipotesi cinese di ridare fiato ai “six-party talks”, negoziati che, oltre a Pechino e alle due Coree, coinvolsero in passato anche Usa, Russia e Giappone, e che tra il 2006 e il 2007 consentirono di superare la gravissima crisi che aveva visto, da un lato, il proliferare di esperimenti atomici da parte di Pyongyang e, dall’altro, il rifiuto americano a scongelare fondi coreani bloccati nel Banco Delta Asia di Macao.

La paziente e intensa attività diplomatica che la Cina mise in atto dietro le quinte fu la ragione della riuscita di quel negoziato, tanto che lo stesso George W. Bush dovette riconoscerlo e ringraziare pubblicamente Pechino. Ma gli equilibri sono cambiati rispetto a quell’epoca, e la stessa Corea del Nord rischia di essere meno controllabile per Xi rispetto a quanto lo fosse allora per Hu Jintao, nonostante la decisione di bloccare le importazioni di carbone da Pyongyang per tutto il 2017 risponda alla logica di rafforzare le sanzioni deliberate dall’Onu e, certamente, si sta facendo sentire. E se è vero che la strategia cinese è quella dell’aggiramento, dell’accerchiamento con astuzia, della sconfitta dell’avversario senza combattere (secondo il migliore insegnamento di Sun Tzu nel suo “L’Arte della Guerra”), è anche vero che la politica muscolare di Trump, se non sarà sapientemente governata per non spingersi mai troppo oltre, rischia di scatenare dinamiche imprevedibili in un’area che è una polveriera.

Lo sa bene Henry Kissinger, che mentre il neoeletto Trump parlava al telefono con la presidente di Taiwan provocando l’irritazione massima di Pechino, era al cospetto di Xi Jinping in occasione della sua ottantesima visita in Cina dal 1971. E sempre facendosi portatore di una filosofia, quella che lo rese il grande fautore del disgelo con Nixon alla Casa Bianca: non bisogna concentrare il dibattito su quale conflitto potremo avere davanti e come dovremo combatterlo, ma su come e dove collaborare.

La visione geopolitica di Xi, che deve a Mao una buona dose di realismo, si nutre di un approccio cauto nelle relazioni internazionali, ma la sua intraprendenza e l’audacia di alcune posizioni è innegabile in un contesto che gli chiede di far abituare il mondo a una Cina diversa dal passato. Ed è così che il «basso profilo» di Jiang Zemin e di Hu Jintao in politica estera ha lasciato il posto al «perseguire gli obiettivi in maniera discreta» di Xi. L’escalation che dal 2013 ha avuto l’annosa questione delle isole contese nel Mar Cinese Meridionale sta mettendo a dura prova le relazioni di Pechino con i Paesi interessati e ha creato tensioni con gli stessi Stati Uniti. Ma nemmeno Washington se l’è sentita di fare la voce più di tanto grossa quando le forze armate cinesi sono arrivate a costruire isole artificiali in quella parte di mare, segno del fatto che gli scenari, con il Dragone protagonista, stavano cambiando profondamente.

Ora si tratta di fare i conti con una situazione che si è incancrenita e che rischia di precipitare, con conseguenze pesanti, forse irrimediabili, per tutti. A cominciare da Kim Jong-un, che dietro i proclami e l’ostentata arroganza, punta certamente a garantirsi una posizione di forza al tavolo delle trattative. La Corea del Nord è da sempre un solido alleato militare di Pechino, ma per quanto potrà mettere ancora alla prova la secolare pazienza cinese? E quanto peserà nei negoziati il “Thaad”, il nuovo sistema Terminal High Altitude Area Defense che sorgerà in Corea del Sud?

Diversi analisti concordano nel dire che Xi ha il calibro per reagire duramente a posizioni di forza di Trump giudicate eccessive. E che la sua partecipazione a Davos, prima, e l’incontro con il presidente Usa, poi, qualificano lo spessore di un leader con una caratura ben diversa da quella del suo predecessore Hu. Trump, dal canto suo, ha accettato «con piacere» l’invito di Xi di contraccambiare quest’anno la visita, rimettendo poi a un lancio dell’agenzia “Nuova Cina” l’auspicio di poter fare il viaggio «alla prima data possibile». Dialogo e nuove prospettive di interscambio economico (e non solo) all’orizzonte, dunque. Eppure, nella partita in atto, non può non tornare alla mente John Kenneth Galbraith con il suo lucidissimo “Passaggio in Cina”: «Pochi istanti prima del duello missilistico, ci saranno studiosi che staranno proponendo più stretti scambi culturali come contributo alla pace». Nella speranza, naturalmente, che fosse solo una battuta.

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