Giulio Regeni, Emma Bonino: alleati non significa che si deve tollerare tutto

Giulio Regeni, Emma Bonino: alleati non significa che si deve tollerare tutto
di Marco Ventura
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Domenica 7 Febbraio 2016, 09:33
«Mi sembra ovvio escludere un atto di criminalità comune: per il posto dov’è stato ritrovato il corpo, per i segni di tortura, per tutti i particolari noti. Anche Gentiloni dice che siamo lontani dalla verità. Ma se l’Italia tiene, la verità in qualche modo verrà fuori. Perché quello che preoccupa il governo egiziano non è tanto la verità su questo caso, ma che si apra il coperchio su tutto il resto». Emma Bonino, ex ministro degli Esteri, ha vissuto al Cairo e sa l’arabo. 

Le sue ipotesi sull’uccisione di Giulio Regeni?
«Considerando l’atmosfera che c’è da qualche anno in Egitto, una è la brutalità della polizia. E qui ogni paese ha i suoi problemi: basti pensare a Stefano Cucchi da noi, ma per l’Egitto è come se improvvisamente scoprissimo le brutalità perché c’è un passaporto italiano. Altra ipotesi è l’intervento dei Mukhabarat, i servizi segreti, altrettanto brutali, oppure di qualche gruppo speciale ancora autorizzato che risale alla legge del ‘56 con cui Nasser represse duramente i fratelli musulmani».

 

Che dire delle versioni discordi e del complottismo?
«Il governo egiziano cerca ancora di coprire una situazione che rispetto a detenzioni arbitrarie, scomparsa delle persone, processi più o meno farsa e condanne a morte è stata anche troppo tollerata e nascosta, senza troppe critiche pure da diversi paesi occidentali. Quello che emerge non è nuovo, basta leggere i rapporti di Amnesty International o Human Rights Watch. Lo stesso Consiglio nazionale egiziano per i diritti umani, un organismo governativo, ha contato circa 40mila detenuti da luglio 2013 a aprile 2014, e oltre 100 scomparsi. Denunciare complotti esterni o strumentalizzazioni è un sistema che normalmente usano i governi autocratici per coprire certi fenomeni».

Le cancellerie conoscevano questi problemi?
«Certo, anche di governi amici, ma non li hanno posti come priorità o con qualche forza negli scambi e nelle relazioni diplomatiche. La versione egiziana è «Nnoi stiamo combattendo il terrorismo, i fratelli musulmani sono tutti terroristi». Però nelle carceri sono finiti pure i blogger o quelli del movimento 6 aprile».

Qual è il prezzo della stabilità?
«Anche i cimiteri sono stabili, se è questo il tipo di stabilità che cerchiamo, ma spero di no. Non che si debbano rompere le relazioni diplomatiche, come dice qualcuno: la corda è scivolosa, ma per esperienza so che non perdiamo rispetto né attenzione se solleviamo questi problemi con paesi come l’Iran, la Russia o l’Arabia Saudita. Non voglio tornare sulle statue coperte o sugli improvvidi baciamano a Gheddafi, ma nelle cancellerie occidentali succede che se si è alleati o si hanno interessi economici o geo-strategici, tutto il resto non deve esistere». 

L’alleanza con l’Egitto è cruciale in Libia e Medio Oriente?
«Ma non per questo dev’essere completamente acritica… In Libia, il ruolo dell’Egitto rispetto a Tobruk e al generale Haftar non ha aiutato e non aiuta l’accordo. Devono sapere che noi sappiamo e non siamo ciechi né sordi, né così impreparati da non capire e non sapere».

Come vede il futuro dell’Egitto?
«Molti egiziani ritengono che il paese si radicalizzi se tutta una parte della popolazione viene criminalizzata e finisce senza processo in carceri che diventano laboratori di estremisti. Poi c’è la situazione economica non brillante, la dipendenza da prestiti e sostegni di Arabia Saudita, Emirati e Kuwait, e l’alleanza tra sunniti e wahabiti in odio ai fratelli musulmani, quindi tensioni con la Turchia. Anni fa, quando vivevo al Cairo, sostenevo che l’Egitto e la sponda sud del Mediterraneo erano come una pentola a pressione senza valvola di sfogo, e che la situazione non era affatto così stabile. Non so se tornerà la primavera araba, ma i problemi di fondo del 2011 sono tuttora irrisolti, compresi quelli del lavoro, economici e dei diritti sostanziali». 
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