Silvio Berlusconi non fa che parlare di centrodestra. Ma la coalizione a cui si riferisce in realtà ormai è divisa in tre. Lo stesso Berlusconi, quando parla dell'alleanza, finisce per riferirsi al proprio spicchio (liberale, moderato, europeista, super-draghiano) e non all'intera compagine. Che oltretutto non s'è mossa all'unisono, anzi, nella partita del Quirinale e le macerie di quella vicenda sono fumanti. Con Fratelli d'Italia cresciuti ancora (primo partito italiano con il 21,1 nell'ultimo sondaggio Ghisleri), Lega sempre più in basso al 16,7 e Forza Italia (che aveva l'8,2 prima del match del Colle) scesa al 7,4. Due partiti su tre, insomma, perdono punti e tutti e tre hanno progetti diversi e sempre meno conciliabili.
La politica di Salvini è quella del pendolo: sceglie Berlusconi o sceglie Meloni? Vira verso il Ppe e un approdo giorgettiano, che è anche quello caro ai governatori leghisti, e insomma si fa più governista e meno di lotta e di governo (uno dei big vicini a Salvini: «Matteo oscilla e non decide»), più simile al centrismo berlusconiano che alla mai sopita voglia di piazza, oppure si fa trascinare dall'ossessione («Si addormenta con quella e si risveglia con quella», assicura chi lo conosce bene) del non volersi fare superare dalla Meloni e cerca di essere più barricadiero di lei pur stando in maggioranza con il Pd? Il rompicapo di Matteo è destinato a durare ancora.
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La corda spezzata
Così Salvini potrebbe dire al Nord governista, al suo elettorato che non vuole strappi e colpi di testa ma stabilità per crescere e per guadagnare: «Sono loro che non ci vogliono più al governo, non noi che non ci vogliamo più stare». Per ora la fedeltà salvinista all'esecutivo è ribadita in continuazione, ma sempre alle condizioni di Matteo: «Devono ascoltarci». Inutile dire l'imbarazzo e la preoccupazione di Giorgetti che è nota a tutti, e a Salvini per primo.
La comodità della posizione della Meloni, a fronte del travaglio leghista, si vede a occhio nudo. Esplicitata anche nel botta e risposta di ieri. «Matteo chiarisca se preferisce noi o il governo con il centrosinistra», dice Meloni. Salvini replica: «Giorgia è ingenerosa. Fra la Lega e l'Italia ho scelto il mio Paese».
Gli applausi di Fratelli d'Italia al discorso di Mattarella a Montecitorio contengono molto della strategia meloniana a breve e a lungo termine. E' quella del rafforzamento dell'«opposizione patriottica» in questo senso. Sui provvedimenti del governo Draghi nel senso dell'Agenda Mattarella - non tutti ma alcuni sì e anzitutto quelli sulla giustizia e la riforma del Csm - ci sarà la massima volontà di condivisione e non il muro del pregiudizio da partito contro. Lo sguardo di Giorgia è alle elezioni del 2023 e per presentarsi a quell'appuntamento, e eventualmente alla successiva guida del governo nel caso vinca il centrodestra e nel centrodestra vinca FdI, l'anno che manca dovrà essere forgiante. Ovvero utile a caratterizzare la destra come forza responsabile e non inutilmente demagogico-piazzaiola, con un'identità netta ma anche con una capacità di conciliarla con gli interessi generali senza scadere nella propaganda.
Questo spiega l'atteggiamento plaudente dei grandi elettori di FdI, a cominciare dalla leader che è uscita dall'aula definendo «un grande discorso» quello del Capo dello Stato, di fronte non solo alle parole mattarelliana sulla giustizia ma anche a quelle sulle diseguaglianze e a quelle sulla ripresa economico-sociale dell'Italia nella post-pandemia.
Un'opposizione che interloquisce, ma senza cedere: così la Meloni vuole diventare egemone nel centrodestra. A meno che non glielo smontino il centrodestra e questa è la sua grande paura: ossia il possibile cedimento proporzionalista di Lega e Forza Italia che farebbe finire la coalizione e marginalizzerebbe FdI, mentre gli altri giocano con il nascente centro e con la sinistra. E Giorgia non si fida proprio.