La cura sbagliata/ La decrescita infelice pagata dai più giovani

di Paolo Balduzzi
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Giovedì 27 Dicembre 2018, 00:05
Uno dei primi insegnamenti impartiti agli studenti di economia è che efficienza ed equità sono finalità distinte e spesso in conflitto della politica economica di uno stato. In termini meno tecnici, raccontiamo che la dimensione di una torta (il reddito di una nazione, o come dicono gli economisti il suo prodotto interno lordo) dipende da quanto poco vengono sprecati gli ingredienti (l’efficienza); la torta può poi essere suddivisa tra coloro che ne hanno diritto: chi ha portato gli ingredienti e chi li ha mescolati, per esempio, ma anche chi non ha contribuito per nulla ma ha fame e fa parte della famiglia (l’equità). 

Purtroppo, le modalità con cui la torta viene tagliata prevedono che briciole e pezzi di dolce stesso cadano per terra. Si pone quindi il problema della scelta tra avere una torta molto grande ma suddivisa in modo iniquo e averne una più piccola ma anche più equa. Uscendo dalla metafora, e arrivando al punto, sembra che l’attenzione prevalente del dibattito politico ed economico in questo Paese si sia concentrato negli ultimi decenni sul secondo aspetto.

Vale a dire sul come redistribuire il reddito, lasciando in secondo piano - se non addirittura ignorando - il primo aspetto, e cioè la sua creazione. Che, tuttavia, è cruciale e forse anche più importante. Innanzitutto, perché questa poca attenzione ha già determinato degli effetti tangibili: il tasso di crescita del reddito reale è in tendenziale discesa sin dagli anni’70 del scolo scorso. Vuol dire che i redditi nominali aumentano, quando aumentano, solo per effetto dei prezzi (l’inflazione) mentre il potere d’acquisto no. Secondariamente perché, con una torta sempre più piccola, i conflitti sull’attribuzione delle fette della stessa prima o poi esploderanno. 
Molti di questi conflitti sono noti, storici e visibili: lavoro contro capitale, onesti contro evasori, lavoratori a tempo indeterminato (insider) e lavoratori a tempo determinato (outsider). Tuttavia, del conflitto più grave questo paese sembra non avere ancora piena coscienza: si tratta di quello tra vecchie e nuove generazioni. Il conflitto è latente per una ragione semplice: il vincitore è molto forte e lo sconfitto molto debole. Lo squilibrio è evidente sia nell’orientamento sia nella composizione della spesa pubblica (pensioni, spesa per sanità e spesa per interessi sul debito occupano quasi il 60% della spesa pubblica, la spesa per istruzione meno del 10%); lo è inoltre anche sul mercato del lavoro, dove i giovani fanno registrare tassi di disoccupazione sempre più che doppi rispetto a quelli generali. 

La sua natura è di evidente origine demografica ma anche istituzionale, a causa di regole di rappresentanza (elettorato attivo e passivo) che escludono la possibilità degli elettori più giovani di votare e di essere eletti. Tuttavia, questa evidente asimmetria non sembra essere una priorità per nessun governo, non ultimo quello in carica, che infatti nella legge di bilancio destina solo risorse residuali allo sviluppo. La spiegazione è facile anche se sconfortante: spostare risorse esistenti porta voti più velocemente che investire le stesse risorse per averne di più in futuro. Ma l’attenzione non esiste nemmeno tra chi un vincolo elettorale non ce l’ha. Per esempio, le trasmissioni televisive, il media con ancora più elevato potenziale dal punto di vista educativo, i cui tempi però riducono le posizioni espresse a meri slogan (quando non a veri e propri insulti). 

L’informazione è dunque solo una facciata dell’intrattenimento. Il web offre in realtà qualunque cosa, ma l’assenza di filtri rende drammatica la scelta dei contenuti da parte di chi non ha le risorse critiche per distinguere la serietà delle fonti. Restano ancora i giornali, la cui tiratura decresce nel tempo ma che certo un impatto sull’opinione pubblica ancora hanno. E proprio a partire dai giornali quindi sarebbe utile che questo paese - i suoi intellettuali ma anche gli imprenditori e i politici stessi - sviluppassero un dibattito vivace sulle ricette per garantire la crescita nel nostro Paese. 

Un primo elemento di discussione potrebbe essere sul ruolo relativo di stato e settore privato. Quante responsabilità hanno l’uno e l’altro nella decrescita infelice che ci sta caratterizzando? Il settore pubblico non può occuparsi di tutto né essere ritenuto colpevole di ogni male; il settore privato deve assumersi le proprie responsabilità. Tuttavia, lo Stato può stabilire regole e incentivi migliori, che permettano al mercato di non premiare solo gli attori più forti. Allo stesso modo, le istituzioni dovrebbero essere riformate. Seppur tra molte lacune, la mancata riforma costituzionale del 2016 aveva il pregio di limitare il potere di veto del Senato, rendendolo peraltro accessibile anche ai semplici maggiorenni. Rendere le istituzioni più responsabili e vincolate elettoralmente ai più giovani non può che essere un bene, e ciò lo si può ottenere rivedendo le età di elettorato attivo e passivo. 

I giovani italiani sono quelli che hanno meno potere politico in Europa e anche quelli che più di altri sentono il bisogno di emigrare per realizzare appieno i propri progetti di vita. Limitare lo scopo della politica a un ragionamento su come suddividere le (sempre più) scarse risorse a disposizione ha due conseguenze certe: la prima è che a un certo punto la torta sarà così piccola che il conflitto latente degenererà in forti tensioni sociali; la seconda è che, fino a quel momento, i giovani, e con loro il futuro di tutto il paese, continueranno a uscirne sconfitti.
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