Gina Lollobrigida, i suoi beni all'asta. Lo sfogo della diva: «Non li avrei mai venduti»

Gina Lollobrigida, i suoi beni all'asta. Lo sfogo della diva: «Non li avrei mai venduti»
di Adelaide Pierucci
4 Minuti di Lettura
Martedì 18 Maggio 2021, 07:07 - Ultimo aggiornamento: 19 Maggio, 11:13

Per meglio raggirare l'attrice (e violare la legge) avevano finto sulla carta che buona parte del mobilio e delle opere d'arte che ingolfavano la villa sull'Appia di Gina Lollobrigida non fossero della diva, ma di una cameriera italiana emigrata a Charlotte, nel North Carolina, per servire spaghetti nel ristorante Dolce Osteria. Sostenevano che la donna fosse proprietaria dei beni e li avesse messi all'asta. Invece, si trattava di una truffa, secondo la Procura di Roma. «Questo è uno dei beni più preziosi che ho, che mai avrei voluto vendere», ha detto la Bersagliera ascoltata dal pm che indaga sul caso. L'ultima depredazione ai danni dell'attrice era stata architettata così: all'insaputa di tutti. Della stessa Gina, che aveva firmato il trasferimento di circa 500 pezzi, convinta di destinarli a un deposito che glieli avrebbe riportati dopo la ristrutturazione della sua villa; dell'amministratore di sostegno nominato dal tribunale per vigilare sui beni della diva, già derubata; dell'ignara cameriera.

Gina Lollobrigida da Barbara D'Urso: «Il matrimonio con Rigau? Non c'è mai stato». E fa il tifo per le coppie gay

«Quei beni miei? Roba da matti - si è sfogata quest'ultima - Gina Lollobrigida neanche la conosco.

Solo il tempo di una foto e un autografo anni fa in un ristorante a Roma». A depredare il patrimonio dell'attrice, come si legge nelle carte dell'indagine, sarebbe stato Andrea Piazzolla, il «consulente, convivente e uomo di fiducia» della Lollo che, secondo l'accusa, sarebbe riuscito a diventare negli anni l'«unico punto di riferimento col mondo esterno». Il trentaquattrenne avrebbe agito con «una abilità e una pervicacia fuori dal comune», sostiene la Procura, mentre era già a processo con l'accusa di circonvenzione di incapace per aver svuotato i conti dell'attrice per milioni di euro. Ora Piazzolla, dopo l'avviso di chiusura delle indagini, rischia di finire di nuovo a giudizio, questa volta insieme a due complici: un ristoratore romano e una sua parente, titolare di una casa d'aste.

 


LA RICHIESTA
Per il momento, l'indagato può tirare un sospiro di sollievo. Il pm Laura Condemi aveva firmato per lui una richiesta di arresto ai domiciliari, rigettata per una procedura tecnica. Quello che emerge nelle indagini, eseguite dalla Finanza, è inquietante. A partire dall'isolamento in cui è stata relegata la vittima, che incassa in media, tra pensione e diritti d'autore, 100mila euro l'anno ed è affetta da uno stato psichico stabilito con perizia che la rende vulnerabile e suggestionabile. È lei stessa, involontariamente, a incolpare Piazzolla: «Posseggo molte icone sacre e a queste sono molto affezionata. Mai me ne sarei disfatta, perché ritengo mi proteggano», ha detto al magistrato che le chiedeva se riconoscesse i beni messi all'asta. «Avevo consegnato assieme a Piazzolla i miei beni alla titolare di una casa d'aste su Roma affinché si interessasse per individuare una ditta per vendere solo alcuni pezzi. Il resto mi doveva essere restituito al termine dei lavori di ristrutturazione. Anzi, fu lei ad offrirsi per tenerli in deposito». Poi, guardando le foto degli oggetti, Gina aveva aggiunto: «Riconosco le opere numero 12, che stava in camera da letto; 15, che stava all'ingresso; 24, in camera da pranzo», e molte altre. «La 216 è l'icona che stava in corridoio, e queste 5 sono cose mie che mai avrei venduto». E ancora: «Il 306 è uno dei beni più preziosi che ho e che mai avrei voluto vendere, valore 600mila euro odierne». Quando le è stato chiesto della cameriera che, sulla carta, risultava in parte proprietaria dei beni, la risposta della Lollo è stata: «Mai sentito il nome di questa signora». Si è scoperto poi che la donna aveva spedito in passato un documento al ristoratore amico di Piazzolla per regolarizzare un'assunzione. E che quindi il mandato a vendere, «sgranato», come annota il pm, poteva essere stato falsificato. L'avvocato Michele Gentiloni Silveri, difensore del figlio e del nipote della diva, si dice «sbigottito dalla noncuranza di Piazzolla rispetto al dibattimento in corso e all'amministrazione di sostegno».

© RIPRODUZIONE RISERVATA