Come uscire dalla tirannide che si annida nella scienza

di Michele CARDUCCI
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Venerdì 29 Dicembre 2017, 19:12 - Ultimo aggiornamento: 19:14
Che cosa hanno in comune le vicende Xylella, Tap, Ilva, Acquedotto pugliese, Cerano ecc...? Nulla o quasi, se guardiamo ad esse singolarmente come “oggetti”. Non si può infatti paragonare un agente patogeno a un tubo di gas, l’acqua alle immissioni di polveri sottili ecc. Del resto, in questi termini si muove la legislazione, che disciplina ciascuno di questi “oggetti” come “materie”. Nonostante questo, però, tali “oggetti-materie” separati stanno producendo, nel Salento come altrove, un fenomeno comune di dissenso partecipato dei cittadini. Si pensi al “popolo degli ulivi” sulla Xylella, ai No-Tap, alle madri tarantine dei figli esposti alle polveri cancerogene, alle rivendicazioni partecipative sull’Acquedotto pugliese, all’associazionismo di “Sanità che cambia” per la salute dei salentini. Come si spiega questa reazione? Il più delle volte, si è risposto formulando giudizi ed evidenziando contraddizioni o meriti. Altre volte si è invocata la legalità: partecipare al dissenso o alla protesta non sarebbe comprensibile, perché le leggi vanno rispettate. Queste, tuttavia, non sono spiegazioni, ma valutazioni. Bisogna invece fare lo sforzo di spiegare, ricorrendo alla fatica dello studio, di cui la libertà di opinione può fare tranquillamente a meno.
In primo luogo, va detto che i fenomeni di dissenso partecipato non sono una novità. Essi affondano le proprie radici in una triplice tradizione liberal-democratica: il riconoscimento del diritto di resistenza contro l’oppressione; la dottrina, di matrice cristiana, della disobbedienza civile contro la tirannide; i dibattiti inglesi sulla rappresentanza politica delle risorse naturali. Questo vuol dire che dove c’è dissenso partecipato c’è opposizione a tirannide od oppressione? Sì. Ed anche che il dissenso partecipato è una forma di democrazia? Sì. Sembra un controsenso, però i riscontri esistono a livello anche di documenti internazionali.
Ma come è possibile parlare di “tirannide” od “oppressione” in uno Stato democratico di diritto come il nostro? A questa domanda, prima ancora che costituzionalisti o politologi, hanno risposto epistemologi (ossia coloro che si interrogano sulla scienza, i suoi metodi, la sua funzione sociale) ed ecologi (coloro che osservano la realtà come ecosistema di elementi viventi e vitali interconnessi: persone, animali, piante, aria, acqua, luce). Sir K. Popper, per esempio, ci ha mostrato che, dentro le democrazie, la nuova tirannide può annidarsi nella scienza, invocata come “autorità” al servizio di decisioni politiche, indipendentemente dalla verifica (democratica, trasparente, plurale e partecipata) di interessi economici, come per es. la titolarità di brevetti che orientano le ricerche. Il più grande scienziato del Novecento, Albert Einstein, lo aveva già anticipato, scoprendo la relatività, ovvero la “quarta dimensione” della scienza: spazio e tempo condizionano i risultati di qualsiasi esperimento. Chi prescinde da questo rinuncia al metodo democratico nella scienza e assume la scienza come dogma. Ecologi come W.E. Odum e D.S. Wilson hanno invece parlato di “tirannia delle piccole decisioni” di fronte ai problemi della regressione ecologica del pianeta (cambiamenti climatici, spreco di risorse naturali, mari di plastica, aria e acqua inquinata ecc...). Nella sfida della sostenibilità ecologica (evenienza inedita nella storia dell’umanità), la somma di decisioni separate per “materie” e “oggetti”, ancorché legale, non risolve i problemi C’è dunque bisogno di metodi di decisione diversi dalla sola legalità democratica. Ecco il punto: la tirannide, oggi, non si annida nell’assenza di democrazia, ma nei “metodi” di definizione del ruolo della scienza e nel rapporto tra attività legali e natura. Rileggere le vicende salentine con queste acquisizioni (che nessuno a livello mondiale disconosce, salvo i negazionisti), aiuta.
Perché i “metodi” possono produrre tirannide e quali sono i “metodi” più democratici? Lo studio ventennale di esperienze partecipative di tutto il mondo è valso a Elinor Ostrom un premio Nobel. La Ostrom ha consegnato alla realtà due evidenze importantissime, utili anche per il nostro Salento. La prima: la mediazione politica è il metodo peggiore per utilizzare risultati scientifici, in quanto fondata su compromessi di varia natura (economica, finanziaria, di consenso, di lobbying) che strumentalizzano (e indirizzano) la scienza. Se consideriamo che la ricerca scientifica privata è ormai concentrata in oligopoli globali, mentre sono stati drasticamente ridotti i finanziamenti pubblici per la ricerca libera, ci rendiamo conto che il problema è serio.
La scienza finanziariamente condizionata è potere interessato, non libertà: aveva ragione Popper. La seconda acquisizione è ancor più interessante: metodi di partecipazione diretta dei cittadini nelle decisioni offrono opportunità di liberazione della scienza dai condizionamenti economici e producono conoscenza diffusa e plurale sui temi ambientali ed ecologici. Anche qui, un esempio: da una recente ricerca si desume che le televisioni nazionali italiane dedicano ai temi ecologici soltanto il 7% del loro spazio. I movimenti italiani di “dissenso partecipato” hanno invece prodotto informazione e documentazione ecologica per oltre il 70% del loro spazio comunicativo. Quindi la partecipazione democratica non è semplicemente dialogo, magari su decisioni già prese, o votazione diretta, magari su proposte già formulate. È molto di più: è una forma di studio e consenso informato sulla salute di intere comunità. Il suo fondamento è la dignità culturale della persona umana. Chi di noi rinuncerebbe al consenso informato sulle proprie malattie, in nome della mediazione politica o dell’autorità “interessata” della scienza (per es. affidandosi a un medico che prescrive medicine in funzione di un brevetto su cui guadagna)? Nessuno, se non per ignoranza-assenza di dignità culturale. Poiché un mondo in regressione ecologica è un mondo malato, il “dissenso partecipato” verso metodi che non privilegiano il consenso informato e la dignità culturale dovrebbe aprirci gli occhi sul futuro. Alcuni documenti italiani sembrano finalmente prenderne atto (dal c.d. “approccio ecosistemico” alla “strategia per lo sviluppo sostenibile” al recente regolamento AIR). Ma ci vorrebbe maggior competenza nella classe politica, largamente impreparata su questi temi e forse inconsapevole che la mediazione politica è ormai fonte, non più soluzione, di problemi.
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