In questi tempi d'incuria serve attenzione (mo' ci vuole!)

di Stefano CRISTANTE
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Lunedì 5 Agosto 2019, 17:14
Credo che il fenomeno che intendo indagare rientri nella categoria “funzioni fàtiche”, vale a dire, in linguistica, l’espressione usata per indicare la funzione del linguaggio propria dei messaggi che hanno il solo scopo di stabilire, mantenere, verificare o interrompere il contatto tra mittente e destinatario.  “Pronto, mi senti?”, “Mi segui?”, “Chiaro?” sono esempi di frasi con funzione fàtica. Così ci dice l’Enciclopedia Treccani, fonte senz’altro autorevole. Oggi parliamo di “Mo’ ci vuole!”, espressione oltremodo diffusa. È un tipo di frase che in effetti mantiene e verifica il contatto tra i parlanti, cioè due delle quattro categorie sintetizzate dall’estensore della voce della Treccani. (Non ho quindi la certezza totale di stare esaminando una “frase fàtica”, ma penso che ci siamo capiti.)

Cosa vuol dire “mo’ ci vuole!”? Esaminiamo alcuni esempi: “Abbiamo dominato – mo’ ci vuole! – il campionato”. E anche: “Questa cosa mi fa diventare pazzo, mo’ ci vuole!”. E: “Poi arrivarono quelli, mo’ ci vuole: dei veri rompiscatole!”.

Si tratterebbe, sostanzialmente, di un rafforzativo concettuale. Il parlante asserisce una sua verità e la irrobustisce con una trovata ingegnosa: sottolineare la sua fondatezza attraverso il riferimento a una finalità (“Ci vuole”, corrispondente a: “È vero” o “È adatto”) in un tempo fragoroso (“Mo’”), sintesi di immediatezza e di bruciante richiamo al presente. La frase adotta il significato del qui e ora latino (“Hic et nunc”) e lo mette a disposizione di un’azione enfatica, rimarcando la giustezza della parola che sarà espressa l’attimo dopo (come nell’esempio del “campionato”) o che è appena stata espressa (“Questa cosa mi fa diventare pazzo – mo’ ci vuole!”).

“Mo’ ci vuole!” è quindi una frase che è destinata a potenziare un’affermazione, che a sua volta contiene la consapevolezza di una possibile esagerazione o, per meglio dire, di un azzardo. È dunque piuttosto semplice capire perché sia un modo di dire molto diffuso, di quelli che tendono anche a fuoriuscire da una cornice geo-linguistica precisa. Nel caso del “mo’ ci vuole!” il bacino generativo è certamente romanesco-meridionale, ma la gente della globalizzazione viaggia, specie da Sud a Nord. Quando un parlante usa “mo’ ci vuole!” in una propria frase, obbliga il proprio interlocutore a considerare due fenomeni: il primo è che l’interlocutore in qualche modo ammette che sta per dire (o che ha appena detto) una parola che potrebbe essere azzardata, il secondo è che, invece di ridimensionare un tratto forse esagerato del proprio discorso, lo ribadisce con forza, rimarcandolo.

La sporgenza sociologica di questi modi di esternare è complessa, ma secondo me sottolinea una tendenza distinguibile nella comunicazione di massa: mi riferisco alla pratica crescente verso la semplificazione dei discorsi. Attenzione: non si tratta di un richiamo moralistico, nostalgico di modi tortuosi di esprimersi di intere categorie (a cominciare dal politichese), ma della presa d’atto che le variabili da considerare in qualsiasi evento sono eccedenti le nostre capacità di immedesimazione, e che quindi abbiamo bisogno di renderci le cose più semplici. Non più stupide. Più semplici. Uno dei modi per arrivare a concepire un messaggio pienamente comprensibile e cui si tiene particolarmente è di usare “mo’ ci vuole!” in una frase. È una strategia che dice molto anche rispetto alla fragilità delle persone in questa fase storica, e che dunque può anche ammettere una spiegazione psicologico-sociale: quando si rimarca è perché si teme che il concetto espresso venga perduto, o non registrato con la dovuta cura. Quindi si teme l’incuria dell’Altro, ma nello stesso tempo si teme che il proprio discorso abbia bisogno di un potenziamento, perché di per sé potrebbe non essere sufficientemente efficace.

Questa interpretazione ci porta a considerare una fenomenologia ancora più specifica: quella della presenza del “mo’ ci vuole!” in numerose frasi di un parlante, e non solo in una o due. Ad esempio: “Sono stato in una città stranissima – mo’ ci vuole! – e mi hanno portato in un quartiere ancora più strano, pieno di gente vestita – mo’ ci vuole! – in mutande, ballavano tutti come disperati. Tutti bevevano – mo’ ci vuole! – come bestie”. In frasi come queste la ripetizione del rafforzativo non produce nel ricevente una semplificazione, ma confusione. Succede perché la funzione “concettuale” del “mo’ ci vuole!” viene lanciata su tutti o quasi gli apparati assertivi (“città stranissima”, “gente in mutande”, “bevevano come bestie”). Ne deriva che l’interlocutore finisce per togliere ogni valenza alla frase rafforzativa e comincia a rubricare il parlante come affetto da una mania, su cui non esercita il dovuto controllo. Forse però questa interpretazione non è l’unica possibile: si potrebbe invece pensare a un “mo’ ci vuole!” usato molto frequentemente perché fornisce una sorta di mappa delle principali affermazioni di chi ci parla. In questo modo l’ascoltatore potrebbe risalire – grazie all’evidenziazione procurata dal “mo’ ci vuole!” – ai contenuti principali del discorso di chi gli parla che, nell’esempio che stiamo usando, resterebbero “città stranissima”, “gente in mutande”, “bevevano come bestie”.

Torniamo quindi all’ipotesi della semplificazione, attraverso raggruppamenti che sono consentiti dalla frase di segnalazione. E terminiamo con la risposta “giusta” a questo genere stilistico. Cosa si risponde (oppure come si interloquisce) a chi dovesse dire: “Abbiamo dominato – mo’ ci vuole! – il campionato”? Se si è d’accordo con l’affermazione, suggerisco di usare un’altra espressione molto in voga: “ci sta”. In questo caso si può rinunciare al punto esclamativo (cioè all’enfasi) e limitarsi a controllare l’argomento, facendo intendere che si è vagliato con attenzione il contenuto proposto (in questo caso di aver dominato il campionato) e che alla fine si condivide la scelta dell’interlocutore, che non sarebbe forse stata quella più ortodossa (forse “dominare” poteva essere eccessivo) ma che comunque può essere approvata (“Ci sta”). Ristabilendo una relazione di consenso nel dialogo si ristabilisce così un accordo sociale: tu che mi parli e mi segnali le tue affermazioni forti sei ricambiato dal mio assenso. Non ti lascerò affogare nelle tue priorità e nei tuoi azzardi, non manifesterò indifferenza: il mio rispetto per te “ci sta” (mo’ ci vuole!).
 
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