Papà mio mi portava alle bancarelle e mi sentivo felice

Papà mio mi portava alle bancarelle e mi sentivo felice
di Simona TOMA
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Lunedì 28 Agosto 2017, 22:18 - Ultimo aggiornamento: 22:20
Stamattina mi sono svegliata più presto del solito, non c’è voluta nessuna sveglia, è bastato il cuore mio a darmi il buongiorno, ché il cuore mio il giorno di Sant’Oronzo batte speciale, non come quando mi fanno agitare, mi strappa il petto proprio, e quasi se ne esce di fuori.
Stamattina mi sono svegliata bambina: “Ada, Adina, vestiti che andiamo alla festa di Sant’Oronzo!”. Facevo finta di dormire quando papà mio, buonanima, la mattina della festa, mi portava lo zabaglione che mi preparava lui con le uova della commare ‘Ndaticchia, con poco zucchero perché a me le cose troppo dolci non mi sono mai piaciute.
Pure tre pastarelle mi portava, quelle però me le faceva la mamma mia insieme alla zia Marietta.
Lui poggiava tutto vicino al letto mio ché il comodino non lo tenevo, già era tanto che tenevo un letto tutto mio, e mi tirava giù il lenzuolo che mi ero cacciata fin sopra gli occhi e cominciava a solleticarmi sulla pancia che ancora oggi è una cosa che mi fa scappare la pipì, con rispetto parlando. Quando Gino mio, dentro al letto nostro, mi cerca ché tiene quelle voglie da indemoniato che ogni tanto gli vengono, anche se si è fatto vecchio da tutte le parti, io scoppio a ridere e corro in bagno ché mi scappa subito, e rimango chiusa dentro fino a quando non si raffredda un poco e poi torno a letto, zitta zitta, e lui: “Ada, tu mi discacci!” e io: “Dormi, Gino mio, dormi, ché domani mattina ricomincia la battaglia…”, e neanche finisco di parlare che quello già sta russando e si è dimenticato che tiene una femmina accanto.
Io, finalmente, chiudo gli occhi e i rumori suoi sono la ninna nanna mia.
Il giorno di Sant’Oronzo io facevo la colazione ancora nel letto ché quel giorno mi era concesso, papà rimaneva seduto sul bordo, mi guardava e sorrideva, e si vedeva che secondo lui ero tutta speciale e migliore degli altri pure per come mi inzuppavo la pastarella nello zabaglione.
Poi mi lasciava sola, e io mi andavo a preparare, mi mettevo la vestina bianca con il pizzo di sangallo sul petto che ancora non tenevo, i sandaletti belli, e andavo in cucina dove più dell’odore del caffè si sentiva quello del dopobarba di papà mio, che teneva un profumino in una bottiglia verde e se ne metteva sempre tanto, e quell’odore era così forte che io certe mattine, quando sto a casa mia, ancora lo sento mischiato all’odore del caffè che esce dalla macchinetta.
Prima di uscire la mamma mia gli aggiustava il nodo della cravatta, perché papà da Sant’Oronzo si doveva far vedere sistemato per segno di devozione.
“Scarpe e cappello fanno l’uomo bello...” diceva sempre e, infatti, quel giorno, si faceva le scarpe lucide lucide e si metteva un bel cappello elegante.
Sempre un signore è stato papà mio, pure con la divisa delle Sud Est, anche se faceva le pulizie.
Stavamo ancora sulla porta di casa e già si prendeva la manina mia nella manona sua: “Le noccioline, ricordatevi le noccioline...” era il saluto che ci facevano la mamma e la zia.
Ci facevamo una passeggiata lenta lenta e lui mi chiedeva della scuola, delle amiche, di tutte le cose mie di bambina, e se incontravamo qualche amico suo mi presentava sempre, perché anche se ero una bambina lui mi trattava sempre con grande rispetto.
Abitavamo dietro San Pio e facevamo il nostro ingresso nel mondo proibito del centro storico da Porta Rudiae.
Papà correva avanti, si nascondeva dietro la porta e io dovevo fare finta di suonare.
“Chi è?”
“Ada sono!”
“Mena, Adina, vieni, ti stavamo aspettando... Senza di te la festa non comincia!”.
Io ridevo e mi mettevo a correre.
Se mi chiedi che cos’è la felicità, io ti dico quella era la felicità: io che corro verso la festa e papà mio dietro che, anche se non lo vedevo, sapevo che mi stava sorridendo.
Passavamo veloci dalla piazza che si era vestita elegante con tutte le luminarie e la cassarmonica, e io sognavo un letto con un baldacchino come quello, con papà mio che mi raccontava i fatti di Papa Galeazzo per farmi addormentare.
“Arancio, limone, mandarino?” mi chiedeva davanti alla bancarella delle caramelle, ma tanto già lo sapeva che io le volevo tutte e se non mi fermava ero pure capace di mangiarmele in un solo boccone.
Camminavamo tra le bancarelle con la gente che gridava e ci voleva vendere tutte le cose, leggeri leggeri, dentro quella luce che si vedeva che era quasi settembre, perché l’aria diventava piano piano meno cafona di quella di agosto.
Agosto è un mese cafone e ci vuole giusto il Santo nostro per farlo finire e dirgli: “Meh, ci vediamo l’anno prossimo, se Dio vuole...”.
Poi papà, come da tradizione, si comprava una bella fetta di porchetta di Ariccia, ché solo lì la poteva trovare, e se ne doveva sempre mettere in bocca un pezzo tutto pieno di grasso bianco e lucido, che lo potevi usare pure per i cardini delle porte da quanto era unto, e poi si leccava le dita.
“Papà, la scapece voglio!” mi mettevo a gridare io quando arrivavamo davanti a quelli che la vendevano, e lui si metteva a ridere ché sapeva che io picci di giocattoli non ne prendevo.
Io due cose volevo: la scapece e le olive verdi.
Le noccioline, poi, erano l’altra tappa obbligatoria ché a casa non potevamo tornare a mani vuote, ché senza noccioline manco sembra la festa del Santo, e papà conosceva il signore della bancarella e ci faceva sempre assaggiare qualche cosa a gratis.
Sant’Oronzo era la festa nostra, ci costava poco e potevamo stare insieme senza pensieri per qualche ora anche se, la verità vera, all’epoca di pensieri non ne tenevo nessuno.
Erano i momenti che non volevo che finivano mai e allora rallentavo il passo e facevo finta di essere stanca fino a quando papà mio, buonanima, non mi prendeva in braccio e io vedevo la festa come la vedeva lui.
Io questo volevo più della scapece e delle olive: io volevo vedere il mondo come lo vedeva papà mio.
Sant’Oronzo, per me, era la festa del papà.
E quando è morto papà mio, la prima volta che sono andata alla festa ci sono voluta andare da sola e io pensavo che dovevano chiudere la festa che non la dovevano fare mai più.
Mi sembrava tutto vuoto, spento, polveroso, e io la dovevo pulire quella polvere, non la stavo sopportando.
Poi ho visto la tinozza con la scapece e ho sentito come odore di dopobarba nell’aria: “Adina, tutta strana sei, l’unica bambina che si mangia la scapece”.
Ho sentito come due cuori dentro al petto mio e ho capito che le persone che se ne vanno prima di noi questo fanno: ti lasciano il cuore loro, così continui a portarglielo in giro per il mondo.
Nah, mi sta squillando il telefono, aspettate poco poco: “Come? Le acque si sono rotte? Fermi sto arrivando…”
Sta nascendo il nipote mio.
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