Il bivio e la grande occasione per il Sud e la Puglia

Il bivio e la grande occasione per il Sud e la Puglia
di Claudio SCAMARDELLA
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Domenica 7 Giugno 2020, 08:54 - Ultimo aggiornamento: 09:06
Siamo seri e smettiamola quanto prima, qui al Sud, con l'autoesaltarci per l'irrealistico racconto di essere stati più bravi ed efficienti rispetto al Nord nell'affrontare e superare l'emergenza sanitaria. Lasciamo pure che lo dicano le macchine di propaganda e le obbedienti cinghie di trasmissione locali dei poteri nazionali e regionali. Ci sta. Ma i dati dell'Istat (ricordarlo non fa male: è l'Istituto nazionale di statistica, non un istituto di parte) sulla mortalità da Covid nel primo quadrimestre 2020, resi noti venerdì scorso, non lasciano spazio ad equivoci e giustificazioni, a meno che non ci si voglia arrampicare sugli specchi: considerata la forte eterogeneità nella diffusione geografica dell'epidemia, risultata molto più contenuta in tutto il Mezzogiorno, l'indice di mortalità al Sud è stato molto, troppo alto, e l'indice di mortalità in Puglia è stato il più alto in tutte le regioni meridionali. Perciò, ogni euforica esaltazione delle eccellenti capacità della sanità meridionale, che sarebbero state dimostrate in questa occasione, appare del tutto fuori luogo.

Né possiamo trovare ragioni di esaltazione, qui al Sud, per i minori danni provocati dal virus rispetto al Nord grazie a un modello di sviluppo (?) più lento e rispettoso dell'ambiente, scambiando come positività le arretratezze e i ritardi della nostra economia (meno globalizzata e meno relazionata ai contatti con l'esterno) e l'inefficienza dei nostri servizi pubblici (a cominciare dai trasporti pubblici, tra i principali veicoli di contagio nella prima fase al Nord). Sarebbe molto più onesto, ed anche lungimirante per correggere nel futuro le nostre gravi storture, ammettere che tutto sommato ci è andata bene e che se avessimo avuto la stessa intensità dello tsunami abbattutosi nelle regioni del Nord sarebbe stata una catastrofe.

Vagheggiare, sulla base di circostanze anche fortunose, un rovesciamento dell’efficienza e dell’efficacia del “sistema meridionale” sul “sistema settentrionale”, con annesso riscatto e sorpasso del Sud sul Nord, appare nient’altro che ridicolo. Non scherziamo. Invece di crogiolarci sulle nostre presunte “superiorità”, faremmo bene a riflettere e a prepararci su cosa e come fare per “sfruttare” la fase della ricostruzione con interventi strutturali capaci di modernizzare l’economia e la società meridionali. Aggettivi e iperboli si sprecano per definire l’occasione che abbiamo di fronte: storica, irripetibile, da non perdere. Già questo, purtroppo, depone male: quando prevale l’enfasi, la delusione è sempre dietro l’angolo. Dobbiamo, tuttavia, essere consapevoli che in queste settimane e nei prossimi mesi si decidono le sorti e i destini di uomini, continenti e Paesi per il prossimo secolo. E, dunque, dell’Europa, del nostro Paese e delle nostre terre.

Le scelte che saranno compiute oggi, in particolare con la massiccia allocazione delle risorse pubbliche, avranno effetti determinanti sulla nostra vita futura e, soprattutto, su quella di chi verrà dopo di noi. Senza scivolare nella retorica dell’estetismo delle catastrofi, dei consolazionismi da salotto e delle velleità purificatrici delle tragedie, c’è un pezzo di verità nel considerare le crisi come opportunità e incubatrici di energie creative, e non solo comemomenti di dolore, lacerazioni e paura. La rottura dei limiti e degli equilibri precedenti sprigiona, anche per il naturale istinto di sopravvivenza, forti spinte verso l’innovazione, il cambiamento e l’adattamento in tutti i segmenti della vita quotidiana, dall’economia alle relazioni sociali e alla politica. Chi è chiamato a compiti di governo e di guida delle istituzioni ha il dovere non solo di leggere queste spinte nuove che emergono, ma anche di anticiparle, accompagnarle, correggerle se è il caso, guidarle. E, tuttavia, resta illusorio pensare che basti un virus a invertire il corso della storia, determinando di per sé discontinuità e svolte. Come dicevano i Greci antichi nulla di ciò che vale accade da sé. E mai come in questo momento il futuro dipende, sì, dalla politica e da chi governa, ma anche da noi, da ognuno di noi, da come vogliamo gestire la “ricostruzione” del tessuto economico, sociale e territoriale.

Dipende dalla strada che sceglieremo tra le due che si presentano davanti a noi nella spesa delle centinaia di migliaia di miliardi - una ciframai vista dal piano Marshall in poi - a disposizione di chi governa a Roma, a Bari e nelle nostre terre. Speriamo di essere clamorosamente smentiti nelle prossime settimane, ma l’impressione è che stia prevalendo la logica di una (finora, solo promessa) distribuzione a pioggia di soldi e sussidi per accontentare e accattivarsi dal punto di vista elettorale ogni categoria, una sorta di indistinto risarcimento di massa pagato con fondi a debito - a parte la quota europea a fondo perduto - e scaricato sulle spalle delle future generazioni. Un neo-assistenzialismo che rischia di produrre l’accentuazione dei vizi, dei ritardi e delle arretratezze dell’economia nazionale emeridionale, piuttosto che ridurli e sanarli. E con il quale va a nozze non solo quel ceto politico ed amministrativo che pensa più alle prossime elezioni che alle future generazioni, inseguendo interessi immediati di sopravvivenza personale e consenso elettorale, ma anche quella borghesia improduttiva, prenditoriale e affaristica, mossa da interessi esclusivamente corporativi e allergica agli interessi generali, del bene pubblico e comune.

Bisogna essere davvero ciechi per non vedere, qua e là, la già potente lubrificazione degli ingranaggi delle macchine da consenso attraverso la (cattiva) spesa di fondi pubblici. Lenire le sofferenze e alleviare la disperazione nelmomento più alto della crisi è stato e resta una priorità dello Stato e delle istituzioni locali,ma deve essere chiaro a tutti che la necessaria erogazione di sussidi non può essere illimitata se davvero vogliamo uscire diversi emigliori da questa tragedia e se davvero pensiamo di interpretare la crisi con la categoria dell’opportunità, correggendo gli errori del passato, prosciugando i ritardi e le arretratezza accumulate, riducendo le diseguaglianze, allargando la base produttiva del Paese e modernizzando i mezzi di produzione. Dobbiamo essere consapevoli che se la risposta al disagio e alla sofferenza sarà esclusivamente quella della protezione, con sussidi e bonus a debito, andremo incontro a nuove grandi delusioni, sprecando un’altra storica e irripetibile opportunità. Contrarre debito per distribuire invece che per produrre ricchezza e valore, creando le condizioni favorevoli al rilancio dell’intrapresa, è una scelta suicida, sciagurata. Purtroppo, questa consapevolezza non sembra sia molto diffusa.

L’idea di fare dell’Italia, a cominciare dal Sud, il modello (?) di un “capitalismo mediterraneo guidato dal debito” e di una generalizzata statalizzazione dell’economia trova sostenitori non solo tra governanti e politici politicanti, interessati solo a quanto e non a come spendere, per elargire soldi e mance in cambio di consensi e voti, ma anche in ampi settori dell’accademia e in quel cosiddetto ceto medio riflessivo che spesso si trova al riparo ed è garantito dal settore pubblico. Il bivio di fronte al quale ci troviamo - cambiare per essere protagonisti del nostro destino o accontentarci di sopravvivere inseguendo mance e sussidi - riguarda anche i nostri territori. Davanti al Sud, alla Puglia, al Salento si sta spalancando un’altra prateria di occasioni, dopo quelle purtroppo sprecate con la globalizzazione e il ritrovato ruolo del Mediterraneo, per tornare da protagonisti nei grandi flussi della storia. A patto che non si commettano gli errori, le omissioni, i comportamenti degli ultimi decenni. E ciò dipende, certo, innanzitutto dalle scelte di chi governa, ma anche dalla cosiddetta società civile, dai ceti più dinamici, dall’intellettualità e dalla capacità di tenersi a debita distanza dalle lusinghe dei cultori di idee passatiste e retrograde sul ritorno al piccolo mondo antico o di vecchi e nuovi ideologismi ambientalisti.

Sembra ormai chiaro che la crisi rallenterà la “globalizzazione fisica”, nel senso della mobilità delle persone, ma sprigionerà una fortissima accelerazione delle innovazioni tecnologiche e dei modi di produrre, a cominciare da una digitalizzazione su scala globale delle imprese, delle produzioni, dei servizi e, speriamo per l’Italia, della pubblica amministrazione. Come ha ricordato l’Economist qualche giorno fa, le innovazioni tecnologiche, le trasformazioni dei modi di produrre beni e servizi, le evoluzioni delle stesse relazioni umane, che prima del virus erano prevedibili in cinque-sette anni, dopo la pandemia diventeranno realtà diffusa in poco più di un anno. L’abbiamo già constatato nelle settimane scorse. Stiamo scoprendo che si possono fare riunioni, chiudere affari, seguire lezioni a scuola e all’università, ridisegnare filiere produttive e distributive, persino decidere le sorti delle nazioni anche senza prendere l’aereo, il treno, il bus e l’auto. Senza, cioè, la presenza fisica. E perfino con un sostanziale incremento di produttività nel lavoro, come emerge dalle statistiche di questi mesi. Che cosa significa tutto ciò se non una riunificazione e un ritorno alla sovrapponibilità dei confini tra “terra dei popoli” e “territorio dei popoli” che la globalizzazione pre-Covid aveva progressivamente divaricato? È come se terra (stanziale) e territorio (globale) si stiano riconnettendo, consentendo davvero - a differenza del passato - una dimensione “glocal” della vita, con il “locale” che finalmente può uscire dalla gabbia del “localismo” e interagire con l’esterno.

Se è questo lo scenario di fondo, è prevedibile una forte spinta non solo al “reshoring” delle imprese e delle attività produttive trasferite altrove per risparmiare sui costi, ma anche a un “reshoring” individuale grazie alla riscoperta del valore delle radici, del rapporto con la terra in cui si nasce, della vicinanza con gli affetti familiari e amicali dopo la grande paura. La necessità di emigrare e del pendolarismo per costruirsi un futuro potrebbe non essere più tale.Mai come oggi identità, attaccamento alle radici e apertura almondo sembrano poter convivere e facilmente integrarsi. È su questo cambio di paradigma, imposto dal virus, che Sud, Puglia e Salento possono provare a rovesciare la zavorra delle arretratezze e dei ritardi accumulati, accentuati negli ultimi trent’anni nonostante una storia tornata a essere amica dopo molti secoli, con l’emergere di scenari geopolitici e geoeconomici carichi di opportunità. Opportunità che per pigrizia intellettuale, immobilismo politico, disincanto e disimpegno della società civile non abbiamo saputo cogliere.

Se è questo lo scenario di fondo, la strada da imboccare sembra chiara. Le risorse pubbliche in arrivo dovrebbero essere investite, al netto dei sussidi e delle protezioni dei ceti più deboli, in modomassiccio in due settori precisi: nella formazione del capitale umanomeridionale che, dopo molti decenni, potrebbe veder ridimensionata la tendenza alla fuga e all’emigrazione; nelle infrastrutture,materiali e soprattutto digitali, per accorciare il gap enorme con il resto del Paese e con l’Europa. La scuola e, soprattutto, le università meridionali, proprio grazie alla riunificazione tra “terra” e “territorio” hanno finalmente la possibilità di uscire dal complesso di minorità del luogo geografico, dalla marginalità territoriale ed economica che finora ha spinto giovani e talenti a emigrare. Investire nel capitale umano significa, inoltre, disinnescare quel processo di degiovanimento, dovuto al trittico da brividi decremento demografico-emigrazione giovanile-invecchiamento della popolazione - che rappresenta una pesante ipoteca sulla sostenibilità dei territori meridionali da qui a vent’anni. Tocca anche alle università prepararsi a questa sfida. Servono risorse, certo,ma servono soprattutto idee e offerte formative. È l’ora di osare, tagliare i rami secchi e connettersi con il mondo, anche con l’ingaggio (da remoto) di figure e intelligenze per promuovere i settori di eccellenza. Limitarsi a gestire l’esistente, preoccuparsi solo del numero degli iscritti, accontentare i corporativismi interni, rimanere prigionieri di veti e ricatti significa non cogliere la grande opportunità della digitalizzazione per accorciare, fino ad annullare, le distanze dalle conoscenze e dai depositari (globali) delle conoscenze. Significa votarsi a un destino già segnato. Investire nelle infrastrutture digitali rappresenta l’altra occasione per colmare buchi e ritardi dell’economia meridionale. Lo era anche prima dell’esplosione della pandemia, in verità. Ma c’era chi non se ne era accorto, al Sud e in particolare in Puglia. Ora i dati emergono in modo impietoso e inchiodano alle responsabilità quanti andavano raccontando una regione ricca di eccellenze, locomotiva del Sud, California d’Italia per capacità di innovazione.

I dati non hanno bisogno né di aggettivi, né di commenti: il 30% dei pugliesi non utilizza Internet e la rete; oltre il 40% non ha un computer o un tablet; solo poco più del 30% della popolazione utilizza la rete per servizi bancari emeno del 15% interagisce con la pubblica amministrazione in forma digitale. La banda larga copre l’81,5% delle unità immobiliari regionali, mentre la banda ultralarga non supera il 10% e fino a tre mesi fa la stragrande maggioranza dei 258 Comuni pugliesi non aveva sottoscritto la convezione con il concessionario selezionato dalla gara per la realizzazione della banda ultralarga. Siamo perciò lontanissimi dall’obiettivo europeo - altro che California d’Italia - che poneva il 2020 l’anno in cui sarebbe stato consentito al 100% della popolazione di navigare su Internet grazie alla banda ultralarga. Al contrario della copertura per la telefoniamobile, dove siamo tra i primi in Europa, con la rete restiamo in fondo alla classifica. E mentre altrove si accelera per ottenere quanto prima la tecnologia del 5G, da noi molti sindaci fanno a gara per piazzare la bandierina del “no”.

Ecco perché la scelta della strada da imboccare dipende molto da noi, soprattutto dalla nostra capacità di indignarci e dalla nostra voglia di cambiare davvero. Sarebbe imperdonabile, soprattutto per chi verrà dopo di noi, sprecare quest’altra grande opportunità che il tornante della storia offre alMezzogiorno, alla Puglia e al Salento. Vero, non mancano le incognite.Ma di una cosa si può essere certi: curare solo con l’antidolorifico una malattia può attenuare momentaneamente la sofferenza, ma non rimuoverne le cause. Abbiamo la possibilità, invece, di osare. E di guarire. Se non ora, con tutte le risorse in arrivo, quando?
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