La statale 275 e il futuro prigioniero della palude

La statale 275 Maglie-Leuca
La statale 275 Maglie-Leuca
di Renato Moro
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Venerdì 22 Gennaio 2021, 11:11 - Ultimo aggiornamento: 16:01

Quando fu tagliato il nastro della statale 275, la Maglie-Leuca, era il tardo 1937, sedicesimo anno dell’era fascista. La Fiat era in festa per il traguardo delle 112mila Balilla costruite e il duce si preparava a inaugurare, in Libia, la litoranea più lunga dell’impero. La strada che partiva da Maglie per infilarsi sotto la collina del santuario di Leuca attraversava paesi e latifondi con le masserie che davano ristoro e ombra ai signori leccesi quando in estate chiudevano a doppia mandata il portone del palazzo e con la famiglia migravano a Leuca.
in 84 anni il mondo è cambiato, ma quella strada - a parte le varianti realizzate sul finire del secolo scorso per bypassare un paio di paesi e girare attorno a Maglie - è rimasta più o meno la stessa. Stretta, con due corsie che non reggono più il traffico di oggi, con un preistorico semaforo che regola il flusso in corrispondenza di un ipermercato, i centri abitati che le fanno da contorno, priva di banchine sicure e guardrail centrale e segnata dalle lapidi che ricordano chi su quell’asfalto ha perso la vita. Da oltre vent’anni si attende il raddoppio delle corsie. Da oltre vent’anni si litiga sui centimetri di asfalto da sforbiciare e sul numero delle margherite da strappare per far posto ai cingolati, dopo che per fortuna il primo progetto faraonico è stato accantonato a favore di uno certamente più sostenibile. Da oltre vent’anni ci sarebbero anche i soldi per i cantieri, ma nel frattempo i costi dell’opera sono più che raddoppiati. Da oltre vent’anni si producono montagne di carta - bollata e non - per asfaltare le complanari (quelle sì) del pensiero campanilista, per dare palcoscenico all’ambientalista di turno e lavoro a giudici amministrativi e avvocati. Da oltre vent’anni il nulla. Oppure il troppo se invece dei fatti ricordiamo le parole, le promesse e le assicurazioni consegnate al vento.
La 275 è l’esempio migliore della peggiore politica applicata alla cura delle infrastrutture del territorio. “Cura” non nel senso di manutenzione, perché non è di quella che si sta parlando, ma “cura” nel senso di adeguamento delle stesse infrastrutture alle esigenze di chi il territorio lo vive 365 giorni l’anno o lo abita a tempo determinato per lavoro, turismo o altro. Si può non essere d’accordo, ovviamente, ma nel caso della statale in questione coerenza vorrebbe che si lasciasse l’auto nel garage per riprendere la carrozza e i cavalli, come quelli che nel ‘37 portavano i signori a Leuca.
Adesso questo ingombrante monumento alla malapolitica e alla burocrazia è finito nel bel mezzo di un’altra palude. Da una parte si attende che una Commissione, parola che occorrerebbe cancellare dal vocabolario di un Paese moderno, esamini il progetto definitivo con i suoi quaranta membri per poi passarlo al Ministero e da lì alla Regione e da lì al Cipe e da lì alla Corte dei Conti. Roba che il viaggio di Odisseo, al rientro da Troia distrutta, al confronto sembra una gitarella in gommone. Dall’altra parte, e questa è cronaca dei giorni scorsi, c’è l’esclusione proprio della 275 dal decreto sulle infrastrutture che indica le opere da commissariare. E un commissario, in questo caso, sarebbe stata la persona incaricata di decidere e azionare la leva del “tutti al lavoro”. Una bestemmia in questa palude che tutto avvolge e tutto spinge verso il fondale dell’immobilità. Uno schiaffo agli imprenditori dell’Ance che avevano lanciato un appello ai politici per un sostegno al progetto.
È il Salento, bellezza! Ombelico del mondo, centro gravitazionale per tutto ciò che di bello può accadere. Case fatte di frise, pinete di zucchero filato, spiagge di crema pasticciera e monumenti di pasta frolla. Peccato che tutta questa energia autocelebrativa si scontri col nulla o quasi: porti da smontare perché danno fastidio a papà cefalo quando porta i pesciolini ad ammirare le mura di Otranto; discariche abusive che colorano campagne e strade di ogni tipo; trenini della Sud Est che solo ora - anno domini 2021 - possono sognare l’elettrificazione ma forse non potranno mai superare i 50 orari (i giapponesi li fanno viaggiare a 320 orari, ma - ahiloro! - non hanno i rustici e i pasticciotti); fognature che restano inattive perché non esiste il depuratore; aerei che scompaiono dal tabellone luminoso della partenze e degli arrivi; giovani che fanno le valigie per il Nord sempre più numerosi; fabbriche che chiudono e mense della Caritas che aprono. E strade che per vent’anni e oltre attendono la messa in sicurezza alla faccia dei morti che non viaggiano più e dei vivi che in quaranta chilometri continuano a giocarsi la vita.
A questo punto, tirando le somme, verrebbe da arrendersi. Ci dica una volta per tutte, chi può, se questa benedetta strada deve essere ampliata o se dobbiamo metterci l’animo in pace e pensare a un piano B (magari le carrozze e i cavalli). Se e quando l’ultimo dei passaggi burocratici potrà compiersi, se il cantiere può aprire, se possiamo tornare a sentirci parte integrante di un Paese moderno e di un’Europa ora irraggiungibile come Proxima Centauri. Se possiamo ancora contare su una classe dirigente capace di fare oltre che parlare. 
Se nelle stanze dei bottoni c’è ancora qualcuno in grado di darci una risposta, batta un colpo. Anche solo con la testa, se ha le mani occupate a contare scartoffie.
«Ormai l’epoca delle opere incompiute è terminata», disse ai salentini il ministro Pietro Lunardi quando, esattamente sedici anni fa, inaugurò a Lecce la tangenziale ovest, anch’essa attesa per decenni. La solita storia dei messaggi inviati in assenza di campo. Partono, ma si perdono nell’etere.
 

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