La ripresa dell’anno scolastico si presenta con l’inevitabile guazzabuglio di voci, spesso dissonanti, in gran parte alimentate dalla minutaglia politica a cui si aggregano i cori ansimanti delle famiglie, le titubanze dei presidi e dei docenti, oltre alle immancabili lagnanze da parte delle sigle sindacali. La pandemia ha spostato il focus dell’istruzione sul green pass e sulla paternità dei controlli.
Ci siamo persi per strada l’oggetto e il soggetto principale dell’insegnamento: l’educazione dei ragazzi. Stiamo faticosamente apparecchiando la tavola, dimenticando quale cibo proporre, con quali ingredienti cuocerlo e come farlo assaporare agli studenti. Si riduce all’osso l’attenzione sui programmi, sulla metodologia didattica, sulle materie di studio, o su come far coesistere l’impetuoso impatto digitale con le icone residuate della cattedra e della lavagna. Sono state frettolosamente accantonate le preoccupazioni sulla scarsa comprensione del testo scritto da parte degli studenti, documentate dai test Invalsi, che certifica un netto peggioramento del livello di apprendimento nelle nostre scuole.
Peggioramento ancora più marcato nei contesti socioeconomici e culturali più sfavorevoli, dove si accentuano la dispersione scolastica e gli abbandoni. Questo sta a significare che l’istruzione non è una prassi routinaria, avulsa dal contesto storico, ma che per dare i suoi frutti ha bisogno di essere costantemente aggiornata, nutrita di motivazioni, ambiziosa e visionaria. Mentre ci accapigliamo sul green pass e sulla mascherina abbiamo dimenticato l’uso della parola, abbiamo smesso di frequentarla, l’abbiamo resa vuota e irriconoscibile. Una volta ci mangiavamo le mani, quando non si capiva il significato di una frase, mentre ora colmiamo questa lacuna con il provvidenziale pescaggio dal web, senza immaginare quali nefaste conseguenze questa carenza potrà avere sulla nostra qualità di cittadini, sulla nostra abilità di gestire i rapporti con gli altri. È stato notato come l’incapacità di comprendere non solo le sottigliezze linguistiche, ma persino i discorsi più elementari, porta ad essere facilmente preda del ricatto propagandista dei populisti, della loro povertà lessicale, a volte così insulsa da riuscire a rendere l’ignoranza quasi un capolavoro.
Inoltre abbiamo incamerato l’idea che, comunque, lo studio non è appagante, non ci fa diventare migliori, non influenza la nostra autostima, non fa più la differenza nella scalata sociale. Tuttavia se il mio linguaggio è limitato, se non capisco quello che leggo, se delego allo smartphone la mia capacità di comprendere e di esprimermi, limito la mia comprensione del mondo, e non sapendolo interpretare, riduco anche il piacere di apprezzarlo, restringo il mio spazio di cielo. Senza lo studio la magnifica avventura della vita smette di essere affascinante.
“Nella solitudine della lettura - scrive Ezio Raimondi in <CF1002>Un’ etica del lettore </CF>- recuperiamo la socievolezza, ci apriamo all’immaginazione, acquistiamo sicurezza”. Anche il gesto semplice e naturale di scrivere è essenziale per la mente umana in quanto la tranquillizza, lenisce le sue angosce, la rende paziente, l’aiuta a gestire le proprie emozioni e a farsi un’idea più precisa di sé stessi.
Purtroppo sta prendendo piede la convinzione che studiare o no è la stessa cosa.