Mafia, droga e delitti: la silenziosa complicità dell'ipocrisia

Mafia, droga e delitti: la silenziosa complicità dell'ipocrisia
di Rosario TORNESELLO
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Venerdì 27 Luglio 2018, 16:28
L’esecuzione mortale scrive col sangue la parola “continua” e un nuovo capitolo allunga, rinnovandola, la saga dei delitti di mafia in Salento. Gli arresti (tempestivi: qualcuno si illude ancora di farla franca nelle faide, per dire dello spessore malavitoso delle nuove leve) forse scongiurano un’escalation di violenza e di certo rimandano a data da destinarsi i propositi di vendetta. Aspettiamo. Vediamo. Ma intanto il delitto di Melissano (il secondo in quattro mesi), gli sviluppi delle indagini, il retroterra di consunte - ma anche consolidate - logiche criminali, tutto invita alla riflessione, purché se ne abbia voglia: dove abbiamo sbagliato?

Scu è l’acronimo che, al di là dei legami di discendenza col patto fondativo, racchiude in una sigla il senso della piega criminale sotto la quale il Salento ha oscurato la sua anima bella e perso per sempre la verginità. Chiamiamola come ci pare, rubrichiamola secondo i gusti o le emergenze del momento, ma la criminalità da queste parti è un dato di fatto: non c’è legame consustanziale, piuttosto vincolo di cointeressenza. Vai a capire cos’è peggio, però. La variopinta metamorfosi delle sembianze assunte nel tempo - dal fenomeno inedito che sorprese agli esordi al consenso sociale rastrellato negli ultimi tempi, passando per l’immancabile stagione dell’inabissamento - ci riconsegna l’immagine di una presenza ramificata secondo vecchie logiche: pressoché sempre gli stessi gruppi e sempre negli stessi luoghi. E già questo la dice lunga sull’incapacità collettiva (non certo della magistratura e non delle forze dell’ordine, giacché il tema è soprattutto di ordine sociale) di espellere un corpo qualificato, con buona dose di ipocrisia, come “estraneo”. Ma proprio gli ultimi fatti dicono qualcosa in più. Riletti alla luce della relazione semestrale della Direzione investigativa antimafia, presentata solo pochi giorni fa, aggiungono elementi di inquietudine. Vediamo.

Cosa suggeriva, tra le righe, quella relazione? Che sempre più da queste parti la criminalità indossa i panni di una borghesia rispettabile, imprenditoriale, alle prese con iniziative nei settori trainanti dell’economia legale. E perciò, per usare le parole della dirigente della sezione distrettuale della Dia, il vicequestore Carla Durante, soprattutto nel turismo: bar, ristoranti, strutture alberghiere e ricettive... Da tempo, del resto, anche nell’immaginario collettivo la criminalità ha dismesso i panni - in realtà alquanto logori - propri dell’iconografia classica, ricamati intorno agli elementi simbolici di coppola e lupara. Le infiltrazioni in attività condotte alla luce del sole, l’interesse alla gestione della cosa pubblica, i legami con la politica, il controllo degli appalti, le incursioni nell’alta finanza sono il volto pulito che i clan si danno, o tentano di darsi, per mettere a frutto milioni di denaro sporco. Il quadro, oltremodo problematico, si aggrava nel momento in cui accanto a questa evoluzione, al nuovo cliché della “borghesia criminale”, si riaffaccia il desueto paradigma della sanguinosa guerra tra bande per il controllo dei territori e il primato nei traffici illegali, droga su tutto. Il vecchio retaggio operativo dei clan, quando questi ormai sembravano avviati verso una stabile e pacifica convivenza per una proficua spartizione degli affari, si ripresenta nelle vesti della criminalità balorda e pistolera, pericolosa perché polverizzata e priva di luoghi di compensazione in cui far confluire - contenendoli - conflitti e tensioni. Una doppia contingenza che di per sé è nuova emergenza: il passato ritorna nell’entroterra e il nuovo avanza lungo la costa.

Si dirà: cosa loro. E invece no. È cosa di tutti. E siccome l’essenziale è invisibile agli occhi, almeno per chi non vuol vedere, ieri senza scomodare il Piccolo Principe e il suo autore il procuratore distrettuale antimafia Leonardo Leone De Castris ha ritenuto opportuno, lui che del basso profilo ha fatto una cifra del suo mandato, scrivere due note a margine nel comunicato sugli arresti eseguiti dopo il delitto di Melissano: “Non smetterò mai di ricordare, e parlo alle decine di migliaia di soggetti, di ogni età e classe sociale, che giornalmente assumono cocaina e marijuana sul territorio, che ogni tiro di cocaina, ogni canna fumata alimentano le ricchezze della criminalità organizzata, così come ogni euro speso finisce nelle tasche dei mafiosi”. E il punto è questo: la silenziosa, indifferente, ipocrita (quando non ammiccante) complicità quotidiana; l’omaggio tangibile che parte della cosiddetta buona società tributa ogni giorno - senza volerlo vedere, men che meno ammettere - al lato oscuro di se stessa. La città della luce che si rivolge, per i suoi bisogni, a quella del buio, facendo finta di ignorarla o - al contrario - di condannarla. “Se non si ha il coraggio di riconoscere questa verità - conclude De Castris - non si ha alcun titolo per lamentarsi dell’escalation di furti, rapine e fenomeni criminali di ogni tipo, o indignarsi per l’occupazione da parte della criminalità di interi settori della realtà economica della zona che pure con impegno e fatica la magistratura e le forze dell’ordine continuano a contrastare”.

È tutto qui. Nessun riferimento alle leggi, che ci sono, severe, e finché ci sono si rispettano in attesa di cambiarle, in meglio si spera. Nessun rimando a criteri di salute e di igiene mentale (chiedere dei dati clinici sull’incidenza dei disturbi paranoidi, per dire, o anche solo guardarsi intorno...). La battaglia è culturale. Solo questo. L’antimafia come impegno di legalità è argomento che non appassiona più. La nuova linea del fronte si è spostata, presumibilmente in avanti. “La giustizia – scriveva Alessandro Baratta, giurista e sociologo – è superamento della legalità, è ciò che sta oltre il diritto positivo e ha il suo principio nell’uomo”. Il problema, però, è capire quale tipo di uomo.

 
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