La strada maestra è tornare al voto. Ma dipende solo dal centrodestra

di Claudio SCAMARDELLA
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Martedì 20 Febbraio 2018, 11:39 - Ultimo aggiornamento: 21 Febbraio, 19:19
Dopo l'attesa e prevedibile sentenza del Consiglio di Stato, il ritorno al voto è la via maestra, rappresenta il modo più corretto dal punto di vista democratico per superare l'impasse a Palazzo Carafa. Tocca agli elettori leccesi sciogliere il nodo da loro stessi creato otto mesi fa, dando la maggioranza alle liste di centrodestra e scegliendo un sindaco di centrosinistra. E quanto prima si andrà al voto, meglio sarà per la città. Questo percorso dipende esclusivamente dalla maggioranza di centrodestra, che finora - è bene ricordarlo - ha gridato al golpe e ha indicato sindaco e assessori di centrosinistra come occupanti abusivi. Ora che è maggioranza, se davvero unita e compatta come dice di essere, ha gli strumenti per porre fine al golpe e sfrattare gli abusivi. Perciò, appare quanto meno stucchevole il gioco del cerino che, da ieri, i furbetti della politica politicante hanno avviato. 

I cittadini leccesi devono sapere che, dopo l'attesa e prevedibile sentenza del Consiglio di Stato, il pallino non è più nelle mani del sindaco Salvemini e della giunta in carica, ma nelle mani del centrodestra. Per una ragione molto semplice: i 17 consiglieri della riconosciuta maggioranza possono recarsi fin dalle prossime ore dal notaio, firmare le dimissioni dal Consiglio e decretarne lo scioglimento, consentendo così di ritornare al voto già nel turno delle Comunali previsto tra maggio e giugno prossimi. Un percorso trasparente, senza giochini, senza trattative sottobanco, senza manovre dilatorie e di logoramento, scaricate sulle spalle della città.
Ha il centrodestra la forza e la volontà per compiere questo passo? Ha davvero la voglia di porre fine al sedicente golpe per andare a votare già nella prossima primavera? A giudicare dalle prime dichiarazioni di ieri sembra proprio di no, al di là del generico documento unitario giunto in serata che non dice granché, tranne la delusione per le mancate dimissioni di Salvemini. Le divisioni sul da farsi sono evidenti: Forza Italia parla un linguaggio, con Vitali e la Poli Bortone che non chiudono alla possibilità di una coabitazione con il centrosinistra; Fratelli d'Italia con il nuovo arrivato Perrone parla un altro linguaggio, rilanciando il pallino nelle mani di Salvemini che dovrebbe venire a più miti consigli (quali?); Messuti, Giliberti e i fittiani un altro ancora, chiudendo a qualsiasi ipotesi di inciucio; nel gruppo consiliare che fa capo a Marti, invece, si sono già levate voci di disponibilità a votare il bilancio per salvare la giunta Salvemini-Delli Noci. Una coalizione (?) in ordine sparso. A conferma di una lacerazione profonda all'interno dello schieramento già emersa otto mesi fa e che si è venuta accentuando con le scorribande interne alla coalizione e i cambi di casacca per le candidature alle prossime elezioni politiche. Veleni e scorie difficili da digerire in poche settimane, considerato che proprio in queste ore sono state rilanciate gravi accuse di tradimento a chi ha cambiato partito per un seggio in Parlamento e di atteggiamenti sleali, decisi in riunioni notturne, nella campagna a (s)favore di Giliberti. Veleni e scorie che si ripresenterebbero sicuramente nella fase della scelta di un candidato sindaco a breve termine. E allora sia chiaro, senza infingimenti e inutili sceneggiate: se il centrodestra non avrà la forza di compiere il passaggio dal notaio non appena saranno proclamati eletti i consiglieri riammessi dal Consiglio di Stato, vorrà dire che ha già deciso di votare, a metà marzo, a favore del bilancio in cambio di qualche concessione salvafaccia, consentendo così al sindaco Salvemini e alla giunta in carica il lasciapassare per un altro anno e facendo cadere definitivamente le accuse di golpe e occupazione abusiva di Palazzo Carafa. Esiste un'alternativa a questo scenario, ma sarebbe francamente inquietante oltre che da irresponsabili: puntare volutamente su un prolungato commissariamento del Comune. Sarebbe lo sbocco inevitabile di un atteggiamento politicamente incomprensibile e sicuramente dannoso per la città: i 17 consiglieri di centrodestra non si recano dal notaio a firmare le dimissioni entro il 24 febbraio per far decadere immediatamente l'assise, voteranno poi contro il bilancio a marzo per costringere solo allora Salvemini a dimettersi. A quel punto, non ci sarebbero più i tempi tecnici per il ritorno alle urne in primavera, sarebbe nominato un commissario prefettizio che resterebbe in carica almeno un anno. Una strategia che scaricherebbe sulla città, lasciata nel limbo per anno, i costi delle proprie divisioni e dei tempi necessari per ricucire gli strappi interni. Ammesso che un anno possa bastare, visti i rancori e i veleni sul tappeto. In tutti e tre i casi - scioglimento, coabitazione, commissariamento - il pallino, come si vede, è nelle sole mani del centrodestra.

Al centrosinistra non resta che aspettare le mosse della nuova maggioranza consiliare. La decisione del sindaco Salvemini di non dimettersi è corretta dal punto di vista istituzionale, sia nella forma che nella sostanza, come corretto è il percorso che ha indicato, una sorta di parlamentarizzazione della crisi. È bene ricordare che il sindaco è stato eletto direttamente dai leccesi (non dal Consiglio comunale o dalla maggioranza abusiva di questi primi otto mesi) e, dunque, prima di lasciare la guida della città, ha il dovere di presentarsi nell'assise cittadina, pronunciare un discorso programmatico netto, senza alcuna lusinga verso quei consiglieri pronti al salto, illustrando le misure e i provvedimenti indicati nel documento di bilancio da approvare. Se sulle sue dichiarazioni programmatiche otterrà una maggioranza chiara, alla luce del sole, senza cedimenti e senza trattative sottobanco, potrà decidere di continuare a governare per almeno un anno. Altrimenti, sarà giusto - oltre che inevitabile - dimettersi. Senza crisi di panico e con grande serenità.

Una serenità che, a dire il vero, sembra mancare in alcuni ambienti del centrosinistra, impauriti e scossi dalla sola ipotesi di abbandonare la guida di Palazzo Carafa e di tornare all'opposizione. L'idea che bisogna fare di tutto (anche lasciarsi logorare?) per non interrompere quelle che il centrosinistra ha definito la sfida del cambiamento o la svolta avviata rappresenta, di fatto, un'implicita ammissione della debolezza delle basi sulle quali poggerebbero la sfida e la svolta.

Temere il voto dei leccesi, temere la rivincita del centrodestra significa, evidentemente, temere di aver già perduto la connessione sentimentale con la città; significa che sfida e svolta non sono diventate maggioranza, al di là delle sentenze del Tar e del Consiglio di Stato. Un timore sbagliato e, in ogni caso, un timore che diventerà sicuramente realtà se la permanenza alla guida di Palazzo Carafa dipenderà da una maggioranza raccogliticcia o, peggio ancora, da una viscida melassa che riaprirebbe le vecchie camere di compensazione. Lecce, lo ripetiamo da tempo, è una città in cammino, attraversata da processi di trasformazione che stanno producendo nuovi ceti, nuovi bisogni, nuove domande di governo e nuove aspettative nella gestione delle istituzioni pubbliche. La città è in mezzo al guado, ancora sospesa tra paesone di provincia e città europea. Il definitivo attraversamento, o il sempre possibile riflusso, dipende dalle sfide impegnative che sono di fronte: socio-economiche, urbanistiche, sulla qualità dei servizi, sulla mobilità, nella cultura. Sfide che possono essere vinte solo con un governo omogeneo, lineare, capace di avere una visione strategica coerente, di assumere decisioni nette, di compiere scelte precise, anche impopolari ma dentro un disegno complessivo del sistema-città, anzi del sistema-territorio. Non serve un'indistinta melassa. Ecco perché il ritorno alle urne, quanto prima, resta la strada maestra. E Salvemini, primo fra tutti, ne è consapevole.






 
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