Il Salento oltre Dior, un salto di qualità per superare il provincialismo

Il Salento oltre Dior, un salto di qualità per superare il provincialismo
di Renato MORO
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Giovedì 23 Luglio 2020, 12:23 - Ultimo aggiornamento: 30 Gennaio, 21:21

Dior ha chiuso la sua parentesi leccese. La sfilata di ieri è stata innegabilmente un successo, la diretta ha raggiunto ogni angolo del pianeta, le immagini hanno colpito cuori e cervelli. Degli abiti parleranno gli esperti. Qualche strascico di questa presenza ci sarà ancora nei prossimi giorni, ma il tempo di voltare la pagina del calendario e tutto sarà passato. Ogni cosa, a cominciare da una piazza Duomo che ha fatto penare tanta parte della città per quelle luminarie belle e impossibili, tornerà al suo posto.
Bene. Benissimo. O male? Dipende da quale prospettiva si voglia inquadrare e leggere tutta questa vicenda. La più naturale, la più normale, dovrebbe essere quella di una città e di un territorio che, coscienti delle proprie potenzialità, accolgano un grande evento, lo coccolino, lo promuovano, lo accompagnino per tutta la sua durata e poi lo salutino senza per questo sentirsi ombelico del mondo. Senza per questo pensare che da quell'evento stesso possa venir fuori la svolta decisiva per le sorti del territorio stesso. Così fanno un po' più a nord di Lecce: la zona della Valle d'Itria e quella di Fasano e Ostuni da anni registrano presenze e frequentazioni che farebbero andare su di giri la macchina dell'autoreferenzialità salentina, ma lì gestiscono tutto con più distacco, meno provincialismo e più professionalità. E i risultati si vedono.
Mai, in ogni parte del mondo, un evento voluto e organizzato dall'uomo ha cambiato la storia di un luogo, a meno che non si parli di rivoluzioni, guerre, colpi di stato, grandi attentati o altre cose del genere. Qui non parliamo di avvenimenti così stravolgenti. Quella di Dior è stata una kermesse di alta moda, ottima vetrina per la città e una parte della provincia grazie anche e soprattutto alla presenza di una influencer come la Ferragni. Una bella esperienza da ricordare e magari raccontare, ma tutto deve finire lì. Il ritorno di immagine, per quanto innegabile, da solo non può bastare a dare al turismo una trazione a quattro ruote motrici. Proviamo a chiederci - senza consultare Google - quali altre città, prima di Lecce, la maison Dior ha illuminato con la sua presenza e le sue collezioni. In pochi, pochissimi, lo sappiamo. Eppure, tanto per fare un esempio, nonostante ciò una località come Marrakech continua ad essere una delle mete più ambite del turismo internazionale.
La reazione di Lecce e il Salento alla presenza di Dior ha lasciato a desiderare. Da un iniziale e corale entusiasmo condito della solita salentinità, che a volte ha raggiunto livelli altissimi di barocchismo, si è passati alle critiche e alle liti sull'opportunità di montare le luminarie in piazza Duomo. Da ogni parte sono sbucati scenografi, artisti, storici dell'arte, stilisti e fotografi. Così la maison Dior è diventata una sorta di Giano bifronte: salvatore della patria o straniero colonizzatore (poco importa, in questo caso, se ai vertici del gruppo ci sono più italiani che francesi). Inutile aggiungere che non può essere né uno né l'altro.
Le polemiche, spesso condite da insulti, sono continuate con la Ferragni al centro dell'attenzione. La sua presenza sotto le volte affrescate di Santa Caterina, a Galatina, è apparsa persino come una sorta di profanazione. Fa niente, però, se per tanti di noi la Santa Caterina di Galatina è quella dell'ospedale e non quella della meravigliosa basilica lasciataci da Raimondello e Maria D'Enghien. E i blocchi in piazza Duomo e nelle vie adiacenti? «Ma come, questi forestieri vengono qui, chiudono tutto e noi non possiamo andare a piedi dove vogliamo?». Attentato!
Lecce città dell'arte se ne frega di chi arriva e di chi parte, fecero leggere i leccesi ad Achille Starace, un giorno che il gerarca salentino si fermò da queste parti. Vero o non vero, quello slogan sembra non rappresentare più questa città.
Tutto questo parlare del nulla, litigare sul nulla e confrontarsi col nulla fa ovviamente perdere la bussola. Ci vuole altro per dare a questo lembo d'Italia un ruolo di primo piano in un settore, quello del turismo, che al momento appare l'unico in grado di risollevare le sorti dell'economia pugliese. In quel settore, però, noi navighiamo a vista. Salento d'amare, il brand lanciato una ventina d'anni fa dalla Provincia di Lorenzo Ria, artefice di un nuovo corso insieme con la sindaca di Lecce Adriana Poli Bortone, è ormai stravecchio. Il problema è che non ne abbiamo ancora trovato un altro, non abbiamo ancora deciso che direzione prendere e per questo non siamo né carne né pesce. Persino il dibattito sul dopo-Baia Verde, intendendo per questo l'effimera (per fortuna) esplosione del turismo del sacco a pelo o dei balconi e la necessità di puntare su un'offerta qualificata, si è arenato. Metaforicamente, ma non solo: basta vedere l'incompiuta della nuova litoranea, proprio a Baia Verde di Gallipoli, per rendersi conto del tempo che stiamo sprecando.
Per questo pensare che l'evento di Dior possa portare la svolta tanto attesa è un doppio errore: perché è improbabile che la vetrina offertaci si traduca in un consistente e strutturato aumento della domanda di turismo e perché così pensando si corre il rischio di cullarsi sugli allori che col passare del tempo allori non sono più. Il passo in avanti più importante lo avremo fatto quando eventi di questo calibro verranno accolti, gestiti e vissuti con normalità, con managerialità (al momento una parolaccia). Come fisiologici in una terra ricca di arte e votata al turismo non più di tante, tantissime altre località italiane e non. Perché, può far male ribadirlo ma è così, la Puglia e il Salento non sono l'ombelico del mondo.
E se è vero che il video girato in fretta da Edoardo Winspeare per celebrare le giornate di Dior ricorda gli angeli dalle dolci mammelle, guerrieri saraceni e asini dotti con le ricche gorgiere con cui Vittorio Bodini meravigliosamente descrisse la pietra di Lecce, è anche vero che lo stesso poeta ci raccontò un giorno che qui non vorrei morire dove vivere mi tocca, mio paese, così sgradito da doverti amare. Parole che sono un manifesto contro l'autorefenzialità e il salentocentrismo. È da qui che dovremmo (ri)partire.

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